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Last updateLun, 27 Feb 2017 8pm

Star bene

Educazione del futuro, ritorno al passato: Mary Poppins è di nuovo di moda

Educazione del futuro, ritorno al passato: Mary Poppins è di nuovo di moda

Trieste - La scuola è come la pasta. La si può fare in casa. Ed è anche un diritto sancito dalla costituzione italiana - nella fattispecie gli articoli 30, 33 e 34 -  e corroborato dall’articolo 147 del codice civile. Per di più una sentenza del Consiglio di Stato del 2011 estende questo diritto ai primi due anni della scuola superiore di secondo grado. È per questo che in Italia si sta diffondendo l’uso di allestire in casa propria un corso di studi del ciclo obbligatorio. Qualora i genitori dimostrino di possedere i requisiti, salgono in cattedra tra le mura domestiche, sicure e accoglienti di un salotto o di una cucina. In caso contrario si affidano a un professionista.

L’assunto fondamentale è che l’istruzione è sì obbligatoria, ma il luogo dove essa debba realizzarsi, ossia la scuola pubblica, non lo è perché non sta scritto da nessuna parte. Insomma: in Italia non è obbligatorio frequentare la scuola dell’obbligo. E sembra che lo sappiano in pochi.

La scuola così com’è strutturata, a detta dei genitori che la temono e la evitano, obbliga i fanciulli al grigiore freddo e militaresco degli edifici stile ministeriale. Li espone ai fenomeni di bullismo, prevaricazione e persecuzione del vivere in comunità. Li lascia in balia delle bizzarrie insensate di taluni insegnanti che hanno troppo potere.

Al contrario, l’”istruzione parentale” preserva da tutti i rischi elencati e favorisce il pieno sviluppo di tutte le potenzialità presenti nel giovane. Oppure incontra esigenze e bisogni particolari, siano religiosi o psico-fisici. Il tutto nell’ambiente familiare.

La rete ormai pullula di forum, blog, siti e pagine in facebook che spiegano il perché, il come e il quando dell’ “homeschooling”, con la variante dell’”unschooling” (cioè lasciare al bambino la scelta degli argomenti da approfondire) e i loro titoli sono molto eloquenti: controscuola, bimbifeliciacasa, casadeibambini, educazioneparentale eccetera. C’è anche qualche manuale cartaceo. E tutti contengono istruzioni sugli adempimenti legali da osservare.

In regione vi sono già alcune offerte di lavoro per “istruzione parentale”. La ricetta è semplice. Il dubbio è se funzioni. Ovvero: al momento non vi sono studi psicopedagogici che misurino l’efficienza della scuola parentale - in termini di socializzazione e di preparazione - né statistiche ministeriali che ne attestino la diffusione. Vi è solo la parola di chi l’ha sperimentata.

Per ora si nota non solo un’effervescenza crescente nella rete e la condivisione di esperienze naturalmente tutte positive, ma si proclamano anche manifestazioni e cortei per le strade. Viceversa le critiche alla scuola, pubblica o privata, si sprecano, a cominciare da quella, tristemente vera nella maggior parte dei casi, che gli edifici scolastici assomigliano agli ospedali, alle carceri e alle caserme. E poi che i bambini si annoiano, appassiscono, regrediscono, sono deprivati della libertà. Sono umiliati dal chiedere di poter fare la pipì. Negli USA e in Gran Bretagna l’istruzione parentale è una pratica diffusa. In Italia, sebbene sia una prassi nota fin dagli anni ’70, sta iniziando ora a propagarsi, soprattutto al centronord.

Tra gli internauti il simbolo dell’”homeschooling” è Giacomo Leopardi, educato fino a 7 anni da precettore religioso, poi istruito personalmente dal padre, il conte Monaldo, fino all’età di 15 anni. “Il risultato fu il più grande poeta lirico della letteratura italiana” dice un blogger di parte. E, si potrebbe aggiungere, anche il più colto e intelligente. Peccato che fu anche il più infelice, com’è noto.

Un ritorno al passato, quindi, in nome del principio di autodeterminazione. Ancora una volta la scuola è sotto il fuoco incrociato. Toccherà a pedagoghi e didatti districare la matassa di critiche.

Roberto Calogiuri

Donne "invisibili" a caccia di pari opportunità nella lingua italiana. Ne parliamo con Renata Brovedani

Donne

Trieste - Ignorate, evitate o addirittura occultate. Questo è quello che accade alle donne e al genere femminile nella lingua italiana, che ancora oggi nelle sue convenzioni linguistiche rispecchia una disparità di trattamento fra i due sessi superata talora persino dalla realtà.

Vuoi per insufficiente capacità della lingua a rinnovarsi nella sua normativa, vuoi per pigrizia degli stessi locutori (e spessissimo delle stesse locutrici) che trovano che passare da "ministro" a "ministra" o diffondersi in puntualizzazioni come "cittadini e cittadine" sia un inutile tributo all'ineleganza linguistica, nell'italiano parlato e soprattuto scritto ancora oggi si attuano pochissime "buone pratiche" che riconoscano a donne e uomini pari dignità.

E a completare l'opera ci si mettono anche lessici e dizionari, che nei loro esempi usano spesso non poca  malizia per far vedere come le dis-pari opportunità offerte alle donne nel nostro paese abbiano origine nei loro inveterati difetti.

Della scarsa considerazione di cui soffrono i "generi" femminili - tanto quello sessuale che quello linguistico - si è parlato lunedì 17 dicembre al convegno "Il genere del linguaggio: per un uso non discriminatorio della lingua italiana" organizzato dal Comitato per le Pari Opportunità dell'Università degli Studi di Trieste.

Tra le studiose e attiviste che sono intervenute all'incontro abbiamo intervistato Renata Brovedani, docente di italiano e latino presso il Liceo Scientifico "G. Galilei" di Trieste e membro della Commissione Pari Opportunità fra Uomo e Donna della Regione Friuli Venezia Giulia (di cui è stata presidente dal 2004 al 2009), da molti anni in prima linea nel confronto politico sui diritti delle donne.

Prof. ssa Brovedani, come tutte le lingue anche quella italiana è fatta di convenzioni che possono essere rivelatrici di una disparità di trattamento di uomini e donne all'interno di una società. L'italiano di oggi tratta bene le donne o è rimasta la lingua maschilista della tradizione letteraria?
Più che la lingua in sé, è l’uso dell’italiano ad essere maschilista. Nella nostra società il maschile rimane la misura del valore; in Italia scontiamo il ritardo storico con cui le donne italiane sono state riconosciute come cittadine di pari grado rispetto ai maschi. Questa svalutazione è alla base di molti comportamenti  arroganti, sia in campo prettamente linguistico che in campo lavorativo, economico, sociale: sminuire le donne autorizza infatti molti altri comportamenti di sopraffazione. 

La lingua in ogni contesto gioca un ruolo non da poco: si va dalla negazione dell’esistenza femminile (il maschile falsamente inclusivo; il plurale che fa scomparire le  donne ), al significato irridente  di certi femminili (Uomo disponibile=tipo gentile e premuroso;  Donna disponibile=prostituta;  Segretario particolare=portaborse;  Segretaria particolare= prostituta) agli orrori nelle titolazioni pubbliche (il Ministro donna, il sindaco donna), dove purtroppo le stesse donne attribuiscono al titolo maschile maggiore autorevolezza, rinunciando alla loro rappresentazione linguistica come esseri umani.

Ciò è gravemente lesivo di una educazione civile fondata sul riconoscimento della parità e del diverso apporto che uomini e donne insieme hanno realizzato e realizzano nella costruzione storica  della società in cui viviamo.

È più sessista l'italiano parlato o quello scritto?
Sicuramente l’italiano scritto, più conservatore e tradizionalista; nella lingua orale, anche per gli apporti dall’inglese, sono più frequenti le parole equivalenti.

E i media come si comportano?
C’è una strana dissociazione nei media: da una parte la sovraesposizione di donne in tutti gli ambiti dello spettacolo, dall’altra un avvilente oscuramento nell’ambito scientifico, o economico o politico. Nel primo caso la donna è proposta come oggetto di desiderio, ridotta a merce o a corpo disponibile; nel secondo caso si accorda una visibilità a priori agli uomini, ritenuti evidentemente più autorevoli.

Dopo una conferenza stampa di parlamentari donne e uomini, spesso si trasmette l’intervento del parlamentare; di un convegno scientifico o politico vediamo tavoli di discussione solo maschili, come se le donne non fossero all’altezza delle tematiche; le stesse giornaliste sono vittime di questa “invisibilità” diffusa. Il linguaggio poi è colpevolmente monosessuato, al maschile.

E le donne? Quanto fanno per difendere la differenza sessuale nella pratica linguistica?
Purtroppo c’è differenza tra donne e donne consapevoli: solo nel secondo caso si ha la sensibilità e la competenza per praticare un diverso uso della lingua, non sessista. La giornalista Chiara Valentini ha avvertito però che ci vuole una massa critica almeno del 33% per cambiare una situazione: ciò significa che una donna sola o poche donne non riescono ad avere  la forza per imporre regole in questo caso  comunicative più eque. Chi voglia sfidare la tradizione, deve essere molto convinta e convincente, pronta ad argomentare ogni proposta, altrimenti si rischiano la derisione ed il discredito.

Cosa fa la scuola per promuovere la cultura delle Pari Opportunità attraverso l'insegnamento della lingua italiana?
La scuola è una agenzia formativa che dovrebbe essere impegnata in prima linea nella pratica di una lingua non sessista; a scuola ragazzi e ragazze sviluppano percorsi di identità ed è importante aiutarli a riconoscere le loro differenze, e conviverci e valorizzarle.

Grandi speranze maturarono negli anni ’90, soprattutto dopo Pechino 1995, che dedicò all’educazione l’obiettivo strategico B4; seguirono la Direttiva Prodi del 1997, che auspicava la  “formazione a una cultura della differenza di genere”, lo Statuto delle Studentesse e degli Studenti della scuola secondaria (DPR 249/98), la firma nel maggio 1999 del codice Polite (Pari Opportunità nei libri di testo), per un uso non sessista del lessico nella redazione dei libri scolastici.

Purtroppo da queste  premesse incoraggianti non è  derivato un sistema coerente di interventi educativi, codificati in programmi o modelli; si sono realizzati progetti, attività, laboratori, molto validi sul piano formativo ma caratterizzati dalla occasionalità e attivati dalla buona volontà di singoli docenti.

Nell’ultimo decennio si sta addirittura registrando una involuzione: all’esame di stato del 2010 nessuna delle tracce per il compito di italiano proponeva riferimenti a donne, né come autrici né come argomento da sviluppare. Questa omissione, ed ogni altra consimile,  è a mio avviso dannosa e diseducativa perché può ingenerare negli studenti e studentesse la convinzione dell’irrilevanza dei contributi femminili alla storia del nostro paese.

Nei nuovi programmi ministeriali in molte discipline le donne artiste, o filosofe o scienziate sono assenti, come pure le tematiche che le riguardano...
Il mio pensiero è che invece, proprio per le sue funzioni formative ed educative e quale luogo di interazione sociale, la scuola può e deve impegnarsi nel processo di nuova relazione tra i generi, fondata sul rifiuto dei pregiudizi, sull’abbandono di stereotipi e impliciti, e orientata invece al rispetto reciproco, al riconoscimento dell’altro, alla collaborazione tra pari.
 

Violenza sulle donne, le sofferenze di "Maria"

Violenza sulle donne, le sofferenze di

Camera numero uno, due, tre ma dove sarà? E’orario di visite in ospedale e camminando lungo il corridoio si incrociano persone che bisbigliano in un reparto silenzioso. “E’ di là …. “ mi dice sottovoce un’infermiera indicando una stanza in fondo al corridoio. Maria è lì. Il suo corpo è lì, accucciato nel letto con i suoi trent’anni nascosti sotto lividi e ferite così diffusi che confondono i suoi connotati.  Non si muove, non parla, non risponde alle mie domande. Lui in fianco sembra un marito premuroso. Qualcuno dice troppo premuroso.

La storia di Maria, questo era il suo nome di fantasia, è stata ricostruita ma senza certezze, senza capi d’accusa e vola sul “ si dice che” .  No, non è lei che si è buttata dalla finestra. Nessuno crede a un tentativo di suicidio mal riuscito. Non si decide di morire buttandosi giù dal secondo piano di un piccolo condominio di periferia. Da quell’altezza rischi solo di  restare viva. Di spezzarti le gambe forse. Così deve essere successo. Intanto lui  è lì , in parte al letto, notte e giorno, la veglia senza perderla di vista un istante. 

Controlla anche il suo sonno, l’unica via di fuga. Tutti intorno immaginano cosa può essere successo ma in fin dei conti, non ci sono prove e  Maria, lei resta in silenzio.  In silenzio a ogni mia domanda , immobile, sembra che non respiri. L’unico segno di vita sono le lacrime  mentre la mia voce ripete come un mantra “Non avere pauranonaverepauranonaverepaura”. La paura è una brutta bestia.  Ho incontrato la violenza sulle donne quel giorno, tanti anni fa scrivendo come un funambolo, attenta a non cadere nel facile pietismo, nelle accuse senza prove, con emozione e rabbia,cercando le parole più efficaci per provare a raccontare quello che sentivo in un dialogo muto e quello che avevo potuto immaginare.  

 

Chi siamo

Direttore: Maurizio Pertegato
Capo redattore: Tiziana Melloni
Redazione di Trieste: Serenella Dorigo
Redazione di Udine: Fabiana Dallavalle

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