Donne "invisibili" a caccia di pari opportunità nella lingua italiana. Ne parliamo con Renata Brovedani
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- Pubblicato Martedì, 18 Dicembre 2012 16:27
- Scritto da Monica Visintin
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Trieste - Ignorate, evitate o addirittura occultate. Questo è quello che accade alle donne e al genere femminile nella lingua italiana, che ancora oggi nelle sue convenzioni linguistiche rispecchia una disparità di trattamento fra i due sessi superata talora persino dalla realtà.
Vuoi per insufficiente capacità della lingua a rinnovarsi nella sua normativa, vuoi per pigrizia degli stessi locutori (e spessissimo delle stesse locutrici) che trovano che passare da "ministro" a "ministra" o diffondersi in puntualizzazioni come "cittadini e cittadine" sia un inutile tributo all'ineleganza linguistica, nell'italiano parlato e soprattuto scritto ancora oggi si attuano pochissime "buone pratiche" che riconoscano a donne e uomini pari dignità.
E a completare l'opera ci si mettono anche lessici e dizionari, che nei loro esempi usano spesso non poca malizia per far vedere come le dis-pari opportunità offerte alle donne nel nostro paese abbiano origine nei loro inveterati difetti.
Della scarsa considerazione di cui soffrono i "generi" femminili - tanto quello sessuale che quello linguistico - si è parlato lunedì 17 dicembre al convegno "Il genere del linguaggio: per un uso non discriminatorio della lingua italiana" organizzato dal Comitato per le Pari Opportunità dell'Università degli Studi di Trieste.
Tra le studiose e attiviste che sono intervenute all'incontro abbiamo intervistato Renata Brovedani, docente di italiano e latino presso il Liceo Scientifico "G. Galilei" di Trieste e membro della Commissione Pari Opportunità fra Uomo e Donna della Regione Friuli Venezia Giulia (di cui è stata presidente dal 2004 al 2009), da molti anni in prima linea nel confronto politico sui diritti delle donne.
Prof. ssa Brovedani, come tutte le lingue anche quella italiana è fatta di convenzioni che possono essere rivelatrici di una disparità di trattamento di uomini e donne all'interno di una società. L'italiano di oggi tratta bene le donne o è rimasta la lingua maschilista della tradizione letteraria?
Più che la lingua in sé, è l’uso dell’italiano ad essere maschilista. Nella nostra società il maschile rimane la misura del valore; in Italia scontiamo il ritardo storico con cui le donne italiane sono state riconosciute come cittadine di pari grado rispetto ai maschi. Questa svalutazione è alla base di molti comportamenti arroganti, sia in campo prettamente linguistico che in campo lavorativo, economico, sociale: sminuire le donne autorizza infatti molti altri comportamenti di sopraffazione.
La lingua in ogni contesto gioca un ruolo non da poco: si va dalla negazione dell’esistenza femminile (il maschile falsamente inclusivo; il plurale che fa scomparire le donne ), al significato irridente di certi femminili (Uomo disponibile=tipo gentile e premuroso; Donna disponibile=prostituta; Segretario particolare=portaborse; Segretaria particolare= prostituta) agli orrori nelle titolazioni pubbliche (il Ministro donna, il sindaco donna), dove purtroppo le stesse donne attribuiscono al titolo maschile maggiore autorevolezza, rinunciando alla loro rappresentazione linguistica come esseri umani.
Ciò è gravemente lesivo di una educazione civile fondata sul riconoscimento della parità e del diverso apporto che uomini e donne insieme hanno realizzato e realizzano nella costruzione storica della società in cui viviamo.
È più sessista l'italiano parlato o quello scritto?
Sicuramente l’italiano scritto, più conservatore e tradizionalista; nella lingua orale, anche per gli apporti dall’inglese, sono più frequenti le parole equivalenti.
E i media come si comportano?
C’è una strana dissociazione nei media: da una parte la sovraesposizione di donne in tutti gli ambiti dello spettacolo, dall’altra un avvilente oscuramento nell’ambito scientifico, o economico o politico. Nel primo caso la donna è proposta come oggetto di desiderio, ridotta a merce o a corpo disponibile; nel secondo caso si accorda una visibilità a priori agli uomini, ritenuti evidentemente più autorevoli.
Dopo una conferenza stampa di parlamentari donne e uomini, spesso si trasmette l’intervento del parlamentare; di un convegno scientifico o politico vediamo tavoli di discussione solo maschili, come se le donne non fossero all’altezza delle tematiche; le stesse giornaliste sono vittime di questa “invisibilità” diffusa. Il linguaggio poi è colpevolmente monosessuato, al maschile.
E le donne? Quanto fanno per difendere la differenza sessuale nella pratica linguistica?
Purtroppo c’è differenza tra donne e donne consapevoli: solo nel secondo caso si ha la sensibilità e la competenza per praticare un diverso uso della lingua, non sessista. La giornalista Chiara Valentini ha avvertito però che ci vuole una massa critica almeno del 33% per cambiare una situazione: ciò significa che una donna sola o poche donne non riescono ad avere la forza per imporre regole in questo caso comunicative più eque. Chi voglia sfidare la tradizione, deve essere molto convinta e convincente, pronta ad argomentare ogni proposta, altrimenti si rischiano la derisione ed il discredito.
Cosa fa la scuola per promuovere la cultura delle Pari Opportunità attraverso l'insegnamento della lingua italiana?
La scuola è una agenzia formativa che dovrebbe essere impegnata in prima linea nella pratica di una lingua non sessista; a scuola ragazzi e ragazze sviluppano percorsi di identità ed è importante aiutarli a riconoscere le loro differenze, e conviverci e valorizzarle.
Grandi speranze maturarono negli anni ’90, soprattutto dopo Pechino 1995, che dedicò all’educazione l’obiettivo strategico B4; seguirono la Direttiva Prodi del 1997, che auspicava la “formazione a una cultura della differenza di genere”, lo Statuto delle Studentesse e degli Studenti della scuola secondaria (DPR 249/98), la firma nel maggio 1999 del codice Polite (Pari Opportunità nei libri di testo), per un uso non sessista del lessico nella redazione dei libri scolastici.
Purtroppo da queste premesse incoraggianti non è derivato un sistema coerente di interventi educativi, codificati in programmi o modelli; si sono realizzati progetti, attività, laboratori, molto validi sul piano formativo ma caratterizzati dalla occasionalità e attivati dalla buona volontà di singoli docenti.
Nell’ultimo decennio si sta addirittura registrando una involuzione: all’esame di stato del 2010 nessuna delle tracce per il compito di italiano proponeva riferimenti a donne, né come autrici né come argomento da sviluppare. Questa omissione, ed ogni altra consimile, è a mio avviso dannosa e diseducativa perché può ingenerare negli studenti e studentesse la convinzione dell’irrilevanza dei contributi femminili alla storia del nostro paese.
Nei nuovi programmi ministeriali in molte discipline le donne artiste, o filosofe o scienziate sono assenti, come pure le tematiche che le riguardano...
Il mio pensiero è che invece, proprio per le sue funzioni formative ed educative e quale luogo di interazione sociale, la scuola può e deve impegnarsi nel processo di nuova relazione tra i generi, fondata sul rifiuto dei pregiudizi, sull’abbandono di stereotipi e impliciti, e orientata invece al rispetto reciproco, al riconoscimento dell’altro, alla collaborazione tra pari.