Star bene
Ansie e bisogni dei giovani: un'indagine in diretta sul consumo della nuova droga.
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- Pubblicato Domenica, 13 Ottobre 2013 16:49
- Scritto da Roberto Calogiuri
Trieste – Se si pensa che i ragazzi, ai rave party o nelle discoteche, consumano la stessa droga che serve per togliere le bende ai grandi ustionati o per anestetizzare un cavallo o un elefante, che questa droga si chiama ketamina e negli esseri umani procura allucinazioni di “pre-morte”, visioni del futuro, stati dissociativi e percezioni di essere disincarnati, qualche ricercatore ha ritenuto utile indagare sull’uso che di tale droga si fa al di fuori degli ospedali.
Il sociologo e “operatore di strada” che ha osservato l’ambiente giovanile tra Roma Bologna e Firenze, che – per quasi un anno - ha vissuto direttamente nei luoghi di consumo di questa e di altre droghe, che ha documentato situazioni, emozioni e circostanze socio-culturali, è il triestino Giulio Vidotto Fonda.
Attivo nel campo della prevenzione e riduzione del danno, si occupa degli stili giovanili in relazione a consumi, droghe e nuovi media.
Alla fine della sua ricerca sul campo, ha catalogato e interpretato i dati raccolti in “Ketamina. Stili di consumo” (pp. 186, Franco Angeli Editore, € 25,00). Un libro che è anche un’interessante e profonda panoramica sulla vita “underground” dei giovani d’oggi, su quella vita – legale e illegale che sia - che necessariamente sfugge allo sguardo di genitori, insegnanti e chiunque si occupi di educazione istituzionale.
Abbiamo chiesto direttamente a Vidotto Fonda che ci illustri con parole sue il lavoro che ha svolto.
Dottor Vidotto Fonda, perché un libro sulla Ketamina?La ketamina nasce come farmaco anestetico e analgesico usato sugli umani prima che sugli animali. Non ho però trovato letteratura italiana sull’uso che ne viene fatto fuori dai contesti di cura. Così ho deciso di fare una ricerca su questo fenomeno a partire dai suoi contesti di diffusione per comprenderne motivazioni e significati.
Ha avuto esperienza del fenomeno in ambito provinciale triestino o regionale nel Friuli Venezia Giulia?A Trieste sono tornato da pochi mesi e non ho trovato dati sull’uso di ketamina a livello locale, Considerato poi che il nord-est è l’area geografica in cui, oltre all’alcol, vengono consumate più droghe, non credo la ketamina faccia eccezione. Ricordo anche che a fine anni ’90, prima che io me ne andassi, era già in circolazione. Preoccupa perciò quando i media parlano ancora di una droga appena arrivata in città, così come quando chi diffonde informazione scientifica nei locali viene accusato di istigare al consumo.
Allora ci spieghi in cosa consiste l’ttività di “operatore di strada attivo nel campo della prevenzione e della riduzione del danno”?Ho lavorato per la Cooperativa C.A.T. di Firenze in varie unità di strada con progetti di prevenzione e animazione con adolescenti nei quartieri, nei centri giovani e nelle scuole, prevenzione e riduzione dei rischi direttamente nei party e nei luoghi di consumo, lavoro di strada con tossicodipendenti a rischio di marginalità. Il metodo prevede attività di ascolto, counseling e stimolo, oltre alla distribuzione di materiale informativo e presidi sanitari. Stare in contatto con i consumatori nei loro contesti naturali permette anche di intercettare tempestivamente nuovi stili di consumo e di orientare così la ricerca sul campo.
E com’è avvenuta la raccolta dei dati sul campo?Inizialmente gironzolando nei rave e in alcuni festival tekno toscani nei quali avevo già lavorato come operatore. L’osservazione è servita a riprendere contatto con quei contesti e rintracciarne le evoluzioni sul piano culturale e stilistico. Il problema è stato però riuscire a coinvolgere i consumatori nella registrazione delle loro storie di vita, ovvero nel cuore della ricerca. Gli operatori mi hanno presentato come affidabile e in buona fede e sono stato accolto calorosamente nelle loro case, alle loro tavole, nei loro luoghi d’aggregazione e nei loro eventi preferiti. Lo scambio è stato intenso e alcuni di loro hanno seguito e commentato anche la stesura del testo. Un’esperienza molto appagante sul piano umano, prima ancora che intellettuale.
Torniamo alla ketamina. Quali sono le sue caratteristiche?Per i medici è un “anestetico dissociativo”, per gli psiconauti un “enteogeno”, per la stampa è “nuova, misteriosa e micidiale. A mio avviso è una sostanza difficile, demonizzata, che induce molti effetti. Ad esempio l’uso principale rave e dance non è volto alla ricerca della dissociazione, ma anzi ad aumentare il coinvolgimento e a favorire sensazioni particolari nel momento del ballo spesso in bassi dosaggi e miscelata a un eccitante. Non mancano però temerari esploratori della psiche e del cosiddetto k-hole, o consumatori quotidiani in cerca dell’aiutino per ansia, noia o depressione, così come per sedare il calo psicofisico del “dopo festa” o la smania verso altre droghe d’elezione. in particolare alcol ed eroina. Di stili ne ho individuati quattro, ma nascondono davvero una varietà sorprendente di situazioni particolari.
Cosa intende per “stili di consumo”? E’un concetto guida della sua ricerca… Mi sembra necessario recuperare una visione complessiva dell’uso delle droghe che superi il paradigma bio-medico e consideri il “drogato” come un attore che si muove in un contesto secondo intenzioni, emozioni e conoscenze. Per comprendere uno stile di consumo non è sufficiente sapere i dosaggi, ma bisogna conoscere dove, con chi, come e perché… rintracciare gli aspetti percepiti come positivi e negativi. Vorrei puntualizzare che chi usa droghe, una volta passato l’effetto, è in grado di raccontarsi come qualsiasi altra persona che venga intervistata riguardo a proprie questioni intime e personali. Applicare al consumatore una visione stereotipata di “tossico, matto e sociopatico” induce invece a imbarcarsi in paradossali indagini sulla droga senza drogati.
Che impatto sociale ha la ketamina?Quale sia la sua diffusione non è chiaro; di certo il consumo è aumentato a partire dallo scorso decennio. La mia idea è che qui non si diffonderà ai livelli registrati ad esempio a Hong Kong, ma che rimarrà una tra le tante sostanze a disposizione dei consumatori. Va però segnalato che, se fino a dieci anni fa il traffico amatoriale riusciva a soddisfare la domanda, oggi è prepotentemente entrato in campo il crimine organizzato. Questo significa ketamina più scadente e offerta capillare sul territorio. Ritengo che il riconoscimento tardivo e demonizzazione del fenomeno, come avvenne già per altre sostanze, abbiano impedito la prevenzione dei rischi e la diffusione per tempo di informazioni appropriate.
…e perché dobbiamo stare in guardia?Seppure non vi è prova che il principio attivo della ketamina bruci il cervello o ammazzi, ogni stile di consumo porta con sé criticità particolari dalle quali stare in guardia. Diciamo che tutti gli assuntori rischiano di farsi male (cadute, fratture, bruciature, etc.) a causa delle ridotte capacità motorie e delle alterazioni percettive o di intossicarsi con le sostanze da taglio. Al crescere dell’intensità e continuità d’uso - e in particolare con l’iniezione - aumenta il rischio di effetti collaterali a lungo termine come dipendenza, disturbi dell’umore, del sonno, della personalità, dell’vie urinarie, etc.
Che profilo è in grado di tracciare della cultura giovanile dopo questa esperienza?Il mio sguardo si è concentrato sulla scena rave underground che è stata per oltre dieci anni il contesto elettivo dell’uso di ketamina. Quel movimento, nato come avanguardia culturale contrapposta al divertimento commerciale, appare oggi consumistico e svuotato di contenuti. La cultura giovanile in generale costituisce un insieme davvero variegato. Mi viene però da dire che oggi al consumismo si sono affiancati ansia per il futuro, disoccupazione, sfruttamento, fallimento e precarietà. Ciò favorisce, tra le altre cose, l’adozione di nuovi fantasiosi mix di sostanze con o senza prescrizione medica. In questi termini, il successo di un anestetico economico e dissociativo in una generazione senza soldi né sogni non ci dovrebbe sorprendere.
A chi è diretto il libro?Si tratta di una ricerca sociologica, ma il tema è piuttosto sfaccettato. Grazie anche alla paziente supervisione di vari professionisti ho adottato una prospettiva interdisciplinare. Diciamo che il testo è rivolto a sociologi e studenti, ma anche a operatori sociali, sanitari e delle dipendenze. I protagonisti del volume sono però i consumatori: ho incluso molti loro interventi preservandone lo stile e il gergo, peraltro molto efficace. Così immagino che il testo possa fornire uno spunto di riflessione anche per chi usa sostanze; oltre a offrire una serie di indicazioni concrete per la gestione del proprio consumo e la riduzione dei rischi e dei danni a esso connessi. Ho inserito il mio indirizzo e-mail in coda proprio con l’auspicio di riprendere questo dialogo con i lettori.
La sua specializzazione accademica riguarda gli “stili giovanili in relazione a consumi, droghe e nuovi media”. Che rapporto c’è tra questi elementi?Diciamo che i punti di contatto sono molteplici. Da un punto di vista culturale, droghe, beni e servizi (pensiamo ai social network) si diffondo tra gli adolescenti e nei gruppi attraverso meccanismi simili che fanno leva sul loro bisogno di identità e invadono il loro immaginario. Ritorna così utile ragionare in termini di stili di consumo. In una ricerca sull’uso di Facebook che ho curato l’anno scorso con Andrea Cagioni ne abbiamo ad esempio individuati molteplici, alcuni dei quali hanno rivelato problemi e rischi specifici. Pensiamo poi al fatto che Internet è divenuto la fonte primaria di informazione e discussione anche riguardo alle droghe, e non di rado i consumatori vi acquistano tranquillamente le sostanze. D’altro canto anche i servizi si stanno sperimentando in attività di prevenzione, counseling e presa in carico online, talvolta molto efficaci.
Critiche o elogi all’attuale sistema di informazione/prevenzione? Il problema è proprio che di sistema non si può parlare, nel senso che ci sono grosse differenze tra i progetti implementati dalle varie Regioni, Province, Comuni e Aziende Sanitarie, così come dalla galassia degli enti ai quali questi vengono appaltati. Un motivo è anche che le direttive nazionali sono confuse e ideologiche. Ho già avuto modo in più sedi, in coda a molte altre più autorevoli voci, di descrivere i limiti metodologici delle relazioni annuali al parlamento che restituiscono una fotografia parziale e distorta del fenomeno. Inoltre, dall’entrata in vigore della criminale legge 49 del 2006 - approvata in barba al referendum del 1993 - l’aumentata repressione dei consumatori e dei loro contesti elettivi li ha costretti a nascondersi e isolarsi ulteriormente, la prevenzione è divenuta allarmismo, la riduzione del danno un’espressione che imbarazza gli amministratori. Così, in assenza di una strategia condivisa, molto dipende dal singolo funzionario o ente. Purtroppo non conosco ancora bene la realtà di questo territorio: finora ho incontrato persone competenti e motivate e la tradizione di apertura ed efficienza dei servizi locali mi fa ben sperare.
Giulio Vidotto Fonda è un sociologo e un operatore di strada. Dottorando in Metodologia delle scienze sociali presso l’Università di Firenze, ha pubblicato il saggio “Pelago 2008: dal rito al contenitore” in Cipolla C., Mori L. (a cura di), “Le culture e i luoghi delle droghe”.
“Ketamina. Stili di consumo”, Franco Angeli Editore, pp. 186, € 25,00
(Per le foto si ringrazia il Progetto Extreme (Toscana). Gli scatti sono stati ralizzati durante alcuni interventi di prevenzione e riduzione del danno in rave legali e illegali tra il 2009 e il 2010):
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[Roberto Calogiuri]
Vajont: il "Corriere delle Alpi" pubblica un video inedito girato in super8 la mattina dopo la tragedia
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- Pubblicato Giovedì, 10 Ottobre 2013 09:58
- Scritto da Redazione Ilfriuliveneziagiulia
Belluno - All'indomani delle celebrazioni per i 50 anni della tragedia del Vajont - sabato 12 ottobre è atteso a Longarone il primo ministro Enrico Letta - il "Corriere delle Alpi" pubblica un eccezionale ed inedito documento, reso disponibile dalla cortesia del signor Massimo Da Vià.
Si tratta di oltre 11 minuti di immagini girati dal padre, il signor Zoilo Da Vià, con una cinepresa super8 all'indomani della tragedia del Vajont, in una Longarone rasa al suolo dall'onda gigantesca, e che sono stati pubblicati sul profilo Facebook di Massimo Da Vià.
Il documento, con le immagini digitalizzate della serie di filmini girati da Zoilo Da Vià - pubblicato in esclusiva sul sito del "Corriere delle Alpi", dove si trova un ampio memoriale sul Vajont per le vittime, una raccolta di foto e testimonianze - è una testimonianza delle prime ore successive al disastro che causò 1910 vittime.
Si vedono i soccorritori, la gente attonita che si aggira in un panorama spettrale, laghi d'acqua e tra le fenditure dei monti la diga intatta.
"La mattina presto di un 10 ottobre di 50 anni fa mio padre - scrive il figlio sul popolare social network - prese una cinepresa super8 dal negozio e, in lambretta con un suo amico, da Domegge, raggiunsero Longarone. Nella notte era successo qualcosa, c'era stato un grande tuono e rumore di sirene ed elicotteri".
Per Massimo, forse sono le prime immagini, "o tra le prime. Vorremmo fossero le ultime".
Qui il link alla pagina del quotidiano veneto.
“L’Italia che ci piace” e note de morbìn. Intervista a Riki Malva in attesa del primo singolo in italiàn.
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- Pubblicato Venerdì, 05 Luglio 2013 22:09
- Scritto da Monica Visintin
Trieste - L’aspetto non è dei più rassicuranti. Riki Malva si fa trovare puntualissimo all’appuntamento alla Stella Polare, caffè storico in piazza Sant’Antonio a Trieste, appoggiato al banco dove deve interrompere una ciacolada con il barista e un altro avventore. Mi son bruto - si embè - cossa xe ti torna in mente mentre stringi la mano al dissacrante poeta di Go ciolto ferie doman, la geniale parodia di Born this Way di Lady Gaga ambientata proprio alla Stella Polare. Fisico da wrestler, indossa una t-shirt blu XL-Size con una scritta che è tutto un programma: deme pase, lasciatemi in pace, sopratitolata da uno sguardo schivo che sulle prime sembra suggerirti iera meio prima.
Riki Malva, al secolo Enrico Marchesi, classe 1970, come le nagane che ama fare protagonisti delle sue canzoni, si nasconde dietro alle apparenze. La partenza è quella di chi vorrebbe nascondersi dietro a un profilo basso: faccio l’operaio, ho finito di studiare presto perché a scuola ero un diavolo, fazo musica per hobby e a mettermi nel show business non ci penso neanche, figuriamoci! a quarantadue ani dèi, digo quarantadue perché son nato in novembre.
Ma l’autore delle parodie in triestino delle canzoni di Madonna e Lady Gaga, delle canzoni sul mitico Pedocìn o sulla “stela triestina” del Morbìn ha molto da raccontare. Sul suo lavoro, sulla sua passione per la musica, sulla sua sorniona insofferenza per chi in giro per il mondo marcia con il passo più lungo della sua gamba e per chi non ci prova neanche - come invece spesso succede a Trieste. In attesa che esca il suo primo singolo in italian, in cui assieme all’inseparabile Theo LaVecia ci farà ridere sui clichè dell’”Italia che ci piace”. Non senza una stoccatina anche ai sognatori di “Trieste libera”, come anticipa lo spot della canzone già cliccatissimo su Youtube.
Com’è nata l’idea del tuo nome?
Riki è facile, di nome faccio Enrico. Quando ho lasciato il mio primo gruppo (“I Scoverciai” n.d.r.) ho dovuto trovarmi un nome, è successo cinque anni fa. Allora mi sono ricordato di quando ero ancora un ragazzino e mio padre mi portava in giro per le osterie, Un malva, la me fa un malva per cortesia era la frase di rito per ordinare. Quel malva mi è rimasto in testa. In più era tanto che in Italia aveva successo un tal…Ricky Martin. Un giorno scattò l’associazione…Oltre a tuto mi son uguale…forse son anca più bel!
Oltre a Ricky Martin c’è l’associazione a un personaggio abbastanza più importante per te. Tuo padre.
In realtà Riki Malva è mio padre. Quando mi calo nel personaggio e faccio quel vocione baritonale parlo e penso come lui. Lui è stato un camionista, ha girato il mondo, a Trieste è un personaggio, si potrebbe fare un libro solo su di lui. Carisma, senso dello humor, Riki Malva ha preso tutto da lui.
Quando hai scoperto la tua vocazione per la musica?
Ah, da subito. Mi verrebbe da dire appena nato, la musica è nella mia vita da sempre. Mia mamma mi raccontava che già a tre anni mi trovava spesso a cantare davanti alla televisione. Avevo orecchio per l’orecchiabile, andavo pazzo per la Carrà. Poi all’idea di fare musica ci sono arrivato tardi. Sai, non avendo studiato musica, non avendo una preparazione… sono un autodidatta al 100%.
Niente band con i compagni di scuola, come nei percorsi canonici dei rocker?
No. Semmai mi affascinava l’idea di fare il cantautore.
Chi ti piaceva?
Umberto Tozzi. Sono un fan di Umberto Tozzi da sempre, fin da bambino. L’ascoltava da ragazzina mia sorella, che ha due anni più di me. Tozzi non è il tipo di cantante alla Battisti, il tipo sofisticato che con i messaggi punta in alto. La sua canzone è leggera, ma non per questo improvvisata. Ha carisma, ma è anche autoironico.
Ma non ti sei fermato a Tozzi, mi sembra.
Poi ho iniziato ad ascoltare altra musica. I generi musicali più diversi. E’ stato merito anche del mio attuale compagno di strada, Matteo.
Theo LaVecia?
Sì, è una presenza molto importante. Lui condivide con me tutto: la passione per la musica, l’interesse per la gente. Theo lo fa di professione, nella vita fa l’operatore al Ser.T, non gli mancano le cose da raccontare. Io invece osservo la gente a tempo perso: ma alla fine posso dire che sotto sotto siamo tutti e due…psicologi. Poi c’è Matteo e la musica: Theo mi ha fatto scoprire il rap, la cultura hip hop, il punk che oggi mi piace tantissimo, è entrato nella mia vita. Forse mi piace da sempre: da ragazzo ascoltavo anche questa musica, ma non stavo a pensarci troppo su. Oggi mi piace approfondire gli ascolti.
Quando hai iniziato a comporre?
Non prestissimo come ho detto. Un giorno per scherzo ho composto una parodia, diciamo tredici anni fa. L’ho registrata e portata in fabbrica per farla sentire ai miei colleghi. Ho visto che la cosa funzionava e sono andato avanti. E’ stata la svolta verso la musica demenziale.
Come nasce una canzone di Riki Malva?
Dipende da che cosa scrivo. Le parodie sono un discorso a parte. La gente pensa che facciamo prove molto lunghe, e invece non è vero, zero assoluto. Io scrivo le canzoni e poi le propongo ai miei compagni: se il pezzo piace, lo proviamo e assimiliamo nel giro di un’ora. Qualche volta viene in aiuto anche Theo, con un pezzo o un ritornello. L’intesa è immediata. Poi ovviamente la fase di registrazione comporta uno sforzo diverso, lì si lavora molto di più. L’approdo alla Lademoto -pan.duro Records con il disco Kraputnik mi ha portato a far il salto di qualità allontanandomi dalla dimensione artigianale e domestica.
E gli spettacoli?
La gente penserà che quando vado in scena tutto è preparato e provato. Niente di tutto questo. Niente scaletta fissa, niente scenette o battute fisse: quello che deve succedere succede. Dipende anche da come “sento” il pubblico: con Theo, Linda e gli altri muli che suonano con me c’è una tale intesa che basta un cenno o una parola per far capire che pezzo bisogna suonare.
Ma con le canzoni è diverso…
Sicuramente. Lì parto dall’osservazione della realtà, nei suoi aspetti più quotidiani, anche più banali. Prendo un’espressione, un modo di comportarsi, un oggetto e penso se ha la capacità di diventare il soggetto di una storia, l’attore di un percorso narrativo che lo può portare anche lontano dal suo contesto di origine. Spesso così si creano delle situazioni paradossali, che sono quelle più interessanti dal punto di vista comico. Mi piace associare realtà semplici a contesti più seri…che poi è quello che faccio sempre nelle parodie.
Quanto ha influito Internet e la “globalizzazione “ della canzone demenziale in dialetto?
Più che Internet ha influenzato e aiutato la tecnologia. Non avendo nessuna formazione musicale, senza la tecnologia non avrei potuto fare musica. Venti anni fa non sarebbe stato possibile. Oggi con un microfono, un computer una tastiera e dei programmi anche scaricati in rete chiunque voglia fare musica ci può provare. Non è sempre un bene, questo porta un danno a chi la musica la conosce veramente e molte volte subisce una concorrenza ingiusta. Io mi difendo continuando a costruirmi una cultura musicale, qualcosa che mi renda sempre più autonomo nelle scelte che faccio e nel processo creativo.
C’è qualche fenomeno non triestino che ti piace o che ti ha influenzato?
Non direi. Anche se faccio musica demenziale, i miei riferimenti vanno oltre questo genere, ascolto veramente di tutto. Posso ascoltare ora Umberto Tozzi poi, che ne so, i Metallica. Ecco, in questo posso dire di essere figlio di Internet: la rete ti lascia la massima libertà di spaziare fra tutti i tipi di musica, senza limiti di tempo o di genere. Ed è quello che mi piace fare anche come autore: saltare da una parte all’altra, senza lasciarmi condizionare da nessuno.
Nessun condizionamento ideologico?
Nessuno. Neanche demenzialmente parlando. Certo, c’è Elio e Le Storie Tese: geni assoluti, ma non cerco di imitarli. Anzi…se devo dire chi è l’artista che mi piace di più non vado a cercarlo nella musica.
Sempre più eclettico. Di chi stai parlando?
Di Gigi Proietti. E’ il mio idolo. Una capacità di comunicare con il pubblico unica. E poi mi piace la sua voce, un po’ ci provo a imitarla, inutile nasconderlo.
Altri modelli trovati nell’erba del vicino?
Uno a cui non ho mai chiesto da farmi da maestro. Ma sai, è mio cugino e un grande uomo di teatro a Trieste. Era difficile che non cercassi di rubargli qualche segreto del mestiere, ad esempio per impostare la voce. Maurizio Zacchigna.
Adesso che so che sei così eclettico arrivo a questa domanda un po’ scoraggiata. Che rapporto hai con la tradizione della canzone triestina?
Tutto quello che riguarda la triestinità in generale l’ho sempre apprezzato. Quindi bravi Pilat, Umberto Lupi, Cecchelin fuori dall’ambito musicale. Ma non dipendo da nessuno. Anche perché le mie canzoni, soprattutto le parodie, guardano al mondo contemporaneo e non solo a quello che si vive a Trieste.
Hai poco interesse per la tradizione…
Sì e no. In fondo tutto è destinato a diventare tradizione. Oggi ho successo a Trieste, è probabile che fra vent’anni quello che faccio io adesso diventerà tradizione. Ora mi piace fare da specchio alla vita di oggi, questo momento domani sarà il passato. E’ così.
Fino ad adesso hai composto pezzi in triestino. Questo non ha limitato la tua possibilità di avere più successo?
Ho provato a scrivere in italiano quand’ero molto giovane e mi piaceva l’idea di diventare cantautore. Ne son venute fuori cose tremende, rime tipo cuore, fiore amore…scrivere in triestino è più facile. Il nostro dialetto è pieno di espressioni convenzionali, frasi fatte. E’ divertente poi giocare a mettere insieme questi pezzi
Quanto ai limiti del successo…io e Theo non siamo per niente ambiziosi, non ci piace cercare cose che non siano alla nostra portata. Ma lo stesso il fatto di cantare in triestino è un modo di portare lo spirito di Trieste nel mondo. Noi facciamo questo, Internet il resto. Scrivere in italiano significa non parlare di Trieste.
Però state per uscire con un brano in italiano. Qualche anticipazione?
Si chiamerà “L’Italia che ci piace”. Ci abbiamo messo tutta una serie di cliché che riguardano l’Italia. La pizza, il mandolino, cose così. E’ una prova. La scommessa mia e di Theo è che se in un disco c’è uno o più brani in italiano che magari piacciono fuori di Trieste, forse qualche non triestino ci compra. E ascolta anche il resto.
Che cosa ti piace di Trieste e dei triestini?
Beh, come città mi piace tutto. Non lo dico perché sono nato qui, ma geograficamente è una città favolosa. L’arrivo in Costiera, il mare. Ci sono altre città italiane che mi piacciono: adoro Roma, mi piace tantissimo anche Firenze. Ma Trieste è unica. Dei triestini? Mi piace il nostro spirito, il morbìn, ci ho scritto anche sopra una canzone. La voglia di vivere, vivere bene, star tranquilli. Spesso siamo tacciati di menefreghismo, per molti siamo solo quelli del viva l’A e po’ bon. Ma prendere tutto quanto con allegria è anche una risorsa, significa avere la capacità di guardare oltre gli ostacoli.
Cosa non ti piace invece?
La stessa cosa vista da un’altra prospettiva. Questa mancanza di vera ambizione. La tendenza a fermarsi prima di aver conseguito un obiettivo. La facilità a dire bon, dèi, ‘ndemo avanti. E’ un fatto endemico, molto triestino.
Cosa ti fa ridere dei triestini?
Aaah…(ride) tuto! Quello dei triestini è un mondo comico. Mi fa ridere il modo di parlare, il modo di atteggiarsi. Per non parlare dei personaggi che abbiamo a Trieste. Il triestino è di facile caricatura, perché ha delle caratteristiche riconoscibilissime. Pesa alle vecie nagane triestine, i bulli che vanno in giro per i bareti (“i bar di quartiere” n.d.r.). Sembra che siano brutti e cattivi: poi parli con loro e scopri che tante sono persone buone e semplici, con un mondo di sentimenti da raccontare anche se di fronte agli altri mettono la maschera dei “duri“. E’ bello scoprire quello che va al di là delle apparenze.
Nelle tue canzoni c’è molto dello spirito di frontiera, o meglio di una città che messa ai margini esprime una sua visione del mondo controcorrente, no?
Fa parte del gioco della parodia. In realtà il messaggio che voglio far passare è di apertura al mondo. Un po’ come accade nelle battute iniziali del video “Pedocìn”, dove una tipica nagana apostrofa un messicano che non sa pronunciare bene delle parole in dialetto: lì metto in evidenza i limiti del triestino per invitare tutti a superarli. Anzi, autorappresentandomi come triestino tipico e ironizzando sui suoi stereotipi, dò la prova che sono già oltre a quei limiti.
Il triestino è apparentemente chiuso, ma la sua storia e la sua collocazione geografica sul confine lo porta giocoforza ad essere aperto alla convivenza con realtà diverse. Molto spesso noi triestini siamo rappresentati solo negli aspetti di facciata.
Nelle parodie parti da Trieste per puntare il dito sugli aspetti divertenti dello show-business globale. Musica pop e cinema, non risparmi nessuno…
Io non ce l’ho con i singoli artisti, prova ne sia che non farei un’altra parodia di una canzone, che ne so, di Madonna o Lady Gaga. Certo che mi colpisce il fatto che la gente prenda le icone del pop così sul serio: in fondo gli idoli di adesso non portano avanti messaggi di valenza rivoluzionaria come avveniva quaranta-cinquanta anni fa. Oggi è tutto più de-ideologizzato, tutto più leggero. Il fanatismo nei confronti dello star-system fa perdere il senso di quello che realmente fanno gli artisti di oggi: intrattenimento, e basta. Facendo la parodia di Shakira o Fabri Fibra cerco di riportarli tutti a una dimensione più umana.
E’la stessa cosa che hai fatto con il film “Il Migliore” …
Qui c’entro poco. E’ stato il riconoscimento che ho voluto dare a Leo dei “Robe fate cacao” che da anni producono i miei video, fin da quando suonavo con “I Scoverciai”. Leo adora i B movies e da anni cullava il sogno di fare un cortometraggio per ridere sopra i peggiori film d’azione degli anni ’80, quelle robe becere in cui si mescolano scariche di pugni e pallottole a dialoghi impressionanti, in cui i personaggi si prendono troppo sul serio. Io lì recito la parte di un tale che si chiama “Nessuno”.
Come Ulisse con Polifemo. Riki Malva sta gettando la maschera. Altro che puro divertimento all’insegna del morbìn. Vuoi andare oltre?
Insomma, mi diverto a far divertire la gente. Ma ridere deve essere l’occasione per riflettere.
Meglio su Internet o sul palco?
Negli spettacoli dal vivo, non c’è confronto. Hai voglia a contare i “like” quando sei sul palco. Lì lo vieni a sapere veramente se vali qualcosa: quando conti le visite ad un video non sai mai a quanti è piaciuto veramente. Ai miei spettacoli viene gente di tutte le età, soprattutto ragazzi – ma anche gente più matura. Che siano 2000 come allo show a Barcola l’anno scorso o 70 persone come quindici giorni fa a Muggia poco importa: chi viene a sentirmi ha voglia di ridere e divertirsi e questo per me è contagioso, mi spinge sempre a dare il meglio come se fosse lo spettacolo della mia vita.
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