“L’Italia che ci piace” e note de morbìn. Intervista a Riki Malva in attesa del primo singolo in italiàn.
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- Pubblicato Venerdì, 05 Luglio 2013 22:09
- Scritto da Monica Visintin
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Trieste - L’aspetto non è dei più rassicuranti. Riki Malva si fa trovare puntualissimo all’appuntamento alla Stella Polare, caffè storico in piazza Sant’Antonio a Trieste, appoggiato al banco dove deve interrompere una ciacolada con il barista e un altro avventore. Mi son bruto - si embè - cossa xe ti torna in mente mentre stringi la mano al dissacrante poeta di Go ciolto ferie doman, la geniale parodia di Born this Way di Lady Gaga ambientata proprio alla Stella Polare. Fisico da wrestler, indossa una t-shirt blu XL-Size con una scritta che è tutto un programma: deme pase, lasciatemi in pace, sopratitolata da uno sguardo schivo che sulle prime sembra suggerirti iera meio prima.
Riki Malva, al secolo Enrico Marchesi, classe 1970, come le nagane che ama fare protagonisti delle sue canzoni, si nasconde dietro alle apparenze. La partenza è quella di chi vorrebbe nascondersi dietro a un profilo basso: faccio l’operaio, ho finito di studiare presto perché a scuola ero un diavolo, fazo musica per hobby e a mettermi nel show business non ci penso neanche, figuriamoci! a quarantadue ani dèi, digo quarantadue perché son nato in novembre.
Ma l’autore delle parodie in triestino delle canzoni di Madonna e Lady Gaga, delle canzoni sul mitico Pedocìn o sulla “stela triestina” del Morbìn ha molto da raccontare. Sul suo lavoro, sulla sua passione per la musica, sulla sua sorniona insofferenza per chi in giro per il mondo marcia con il passo più lungo della sua gamba e per chi non ci prova neanche - come invece spesso succede a Trieste. In attesa che esca il suo primo singolo in italian, in cui assieme all’inseparabile Theo LaVecia ci farà ridere sui clichè dell’”Italia che ci piace”. Non senza una stoccatina anche ai sognatori di “Trieste libera”, come anticipa lo spot della canzone già cliccatissimo su Youtube.
Com’è nata l’idea del tuo nome?
Riki è facile, di nome faccio Enrico. Quando ho lasciato il mio primo gruppo (“I Scoverciai” n.d.r.) ho dovuto trovarmi un nome, è successo cinque anni fa. Allora mi sono ricordato di quando ero ancora un ragazzino e mio padre mi portava in giro per le osterie, Un malva, la me fa un malva per cortesia era la frase di rito per ordinare. Quel malva mi è rimasto in testa. In più era tanto che in Italia aveva successo un tal…Ricky Martin. Un giorno scattò l’associazione…Oltre a tuto mi son uguale…forse son anca più bel!
Oltre a Ricky Martin c’è l’associazione a un personaggio abbastanza più importante per te. Tuo padre.
In realtà Riki Malva è mio padre. Quando mi calo nel personaggio e faccio quel vocione baritonale parlo e penso come lui. Lui è stato un camionista, ha girato il mondo, a Trieste è un personaggio, si potrebbe fare un libro solo su di lui. Carisma, senso dello humor, Riki Malva ha preso tutto da lui.
Quando hai scoperto la tua vocazione per la musica?
Ah, da subito. Mi verrebbe da dire appena nato, la musica è nella mia vita da sempre. Mia mamma mi raccontava che già a tre anni mi trovava spesso a cantare davanti alla televisione. Avevo orecchio per l’orecchiabile, andavo pazzo per la Carrà. Poi all’idea di fare musica ci sono arrivato tardi. Sai, non avendo studiato musica, non avendo una preparazione… sono un autodidatta al 100%.
Niente band con i compagni di scuola, come nei percorsi canonici dei rocker?
No. Semmai mi affascinava l’idea di fare il cantautore.
Chi ti piaceva?
Umberto Tozzi. Sono un fan di Umberto Tozzi da sempre, fin da bambino. L’ascoltava da ragazzina mia sorella, che ha due anni più di me. Tozzi non è il tipo di cantante alla Battisti, il tipo sofisticato che con i messaggi punta in alto. La sua canzone è leggera, ma non per questo improvvisata. Ha carisma, ma è anche autoironico.
Ma non ti sei fermato a Tozzi, mi sembra.
Poi ho iniziato ad ascoltare altra musica. I generi musicali più diversi. E’ stato merito anche del mio attuale compagno di strada, Matteo.
Theo LaVecia?
Sì, è una presenza molto importante. Lui condivide con me tutto: la passione per la musica, l’interesse per la gente. Theo lo fa di professione, nella vita fa l’operatore al Ser.T, non gli mancano le cose da raccontare. Io invece osservo la gente a tempo perso: ma alla fine posso dire che sotto sotto siamo tutti e due…psicologi. Poi c’è Matteo e la musica: Theo mi ha fatto scoprire il rap, la cultura hip hop, il punk che oggi mi piace tantissimo, è entrato nella mia vita. Forse mi piace da sempre: da ragazzo ascoltavo anche questa musica, ma non stavo a pensarci troppo su. Oggi mi piace approfondire gli ascolti.
Quando hai iniziato a comporre?
Non prestissimo come ho detto. Un giorno per scherzo ho composto una parodia, diciamo tredici anni fa. L’ho registrata e portata in fabbrica per farla sentire ai miei colleghi. Ho visto che la cosa funzionava e sono andato avanti. E’ stata la svolta verso la musica demenziale.
Come nasce una canzone di Riki Malva?
Dipende da che cosa scrivo. Le parodie sono un discorso a parte. La gente pensa che facciamo prove molto lunghe, e invece non è vero, zero assoluto. Io scrivo le canzoni e poi le propongo ai miei compagni: se il pezzo piace, lo proviamo e assimiliamo nel giro di un’ora. Qualche volta viene in aiuto anche Theo, con un pezzo o un ritornello. L’intesa è immediata. Poi ovviamente la fase di registrazione comporta uno sforzo diverso, lì si lavora molto di più. L’approdo alla Lademoto -pan.duro Records con il disco Kraputnik mi ha portato a far il salto di qualità allontanandomi dalla dimensione artigianale e domestica.
E gli spettacoli?
La gente penserà che quando vado in scena tutto è preparato e provato. Niente di tutto questo. Niente scaletta fissa, niente scenette o battute fisse: quello che deve succedere succede. Dipende anche da come “sento” il pubblico: con Theo, Linda e gli altri muli che suonano con me c’è una tale intesa che basta un cenno o una parola per far capire che pezzo bisogna suonare.
Ma con le canzoni è diverso…
Sicuramente. Lì parto dall’osservazione della realtà, nei suoi aspetti più quotidiani, anche più banali. Prendo un’espressione, un modo di comportarsi, un oggetto e penso se ha la capacità di diventare il soggetto di una storia, l’attore di un percorso narrativo che lo può portare anche lontano dal suo contesto di origine. Spesso così si creano delle situazioni paradossali, che sono quelle più interessanti dal punto di vista comico. Mi piace associare realtà semplici a contesti più seri…che poi è quello che faccio sempre nelle parodie.
Quanto ha influito Internet e la “globalizzazione “ della canzone demenziale in dialetto?
Più che Internet ha influenzato e aiutato la tecnologia. Non avendo nessuna formazione musicale, senza la tecnologia non avrei potuto fare musica. Venti anni fa non sarebbe stato possibile. Oggi con un microfono, un computer una tastiera e dei programmi anche scaricati in rete chiunque voglia fare musica ci può provare. Non è sempre un bene, questo porta un danno a chi la musica la conosce veramente e molte volte subisce una concorrenza ingiusta. Io mi difendo continuando a costruirmi una cultura musicale, qualcosa che mi renda sempre più autonomo nelle scelte che faccio e nel processo creativo.
C’è qualche fenomeno non triestino che ti piace o che ti ha influenzato?
Non direi. Anche se faccio musica demenziale, i miei riferimenti vanno oltre questo genere, ascolto veramente di tutto. Posso ascoltare ora Umberto Tozzi poi, che ne so, i Metallica. Ecco, in questo posso dire di essere figlio di Internet: la rete ti lascia la massima libertà di spaziare fra tutti i tipi di musica, senza limiti di tempo o di genere. Ed è quello che mi piace fare anche come autore: saltare da una parte all’altra, senza lasciarmi condizionare da nessuno.
Nessun condizionamento ideologico?
Nessuno. Neanche demenzialmente parlando. Certo, c’è Elio e Le Storie Tese: geni assoluti, ma non cerco di imitarli. Anzi…se devo dire chi è l’artista che mi piace di più non vado a cercarlo nella musica.
Sempre più eclettico. Di chi stai parlando?
Di Gigi Proietti. E’ il mio idolo. Una capacità di comunicare con il pubblico unica. E poi mi piace la sua voce, un po’ ci provo a imitarla, inutile nasconderlo.
Altri modelli trovati nell’erba del vicino?
Uno a cui non ho mai chiesto da farmi da maestro. Ma sai, è mio cugino e un grande uomo di teatro a Trieste. Era difficile che non cercassi di rubargli qualche segreto del mestiere, ad esempio per impostare la voce. Maurizio Zacchigna.
Adesso che so che sei così eclettico arrivo a questa domanda un po’ scoraggiata. Che rapporto hai con la tradizione della canzone triestina?
Tutto quello che riguarda la triestinità in generale l’ho sempre apprezzato. Quindi bravi Pilat, Umberto Lupi, Cecchelin fuori dall’ambito musicale. Ma non dipendo da nessuno. Anche perché le mie canzoni, soprattutto le parodie, guardano al mondo contemporaneo e non solo a quello che si vive a Trieste.
Hai poco interesse per la tradizione…
Sì e no. In fondo tutto è destinato a diventare tradizione. Oggi ho successo a Trieste, è probabile che fra vent’anni quello che faccio io adesso diventerà tradizione. Ora mi piace fare da specchio alla vita di oggi, questo momento domani sarà il passato. E’ così.
Fino ad adesso hai composto pezzi in triestino. Questo non ha limitato la tua possibilità di avere più successo?
Ho provato a scrivere in italiano quand’ero molto giovane e mi piaceva l’idea di diventare cantautore. Ne son venute fuori cose tremende, rime tipo cuore, fiore amore…scrivere in triestino è più facile. Il nostro dialetto è pieno di espressioni convenzionali, frasi fatte. E’ divertente poi giocare a mettere insieme questi pezzi
Quanto ai limiti del successo…io e Theo non siamo per niente ambiziosi, non ci piace cercare cose che non siano alla nostra portata. Ma lo stesso il fatto di cantare in triestino è un modo di portare lo spirito di Trieste nel mondo. Noi facciamo questo, Internet il resto. Scrivere in italiano significa non parlare di Trieste.
Però state per uscire con un brano in italiano. Qualche anticipazione?
Si chiamerà “L’Italia che ci piace”. Ci abbiamo messo tutta una serie di cliché che riguardano l’Italia. La pizza, il mandolino, cose così. E’ una prova. La scommessa mia e di Theo è che se in un disco c’è uno o più brani in italiano che magari piacciono fuori di Trieste, forse qualche non triestino ci compra. E ascolta anche il resto.
Che cosa ti piace di Trieste e dei triestini?
Beh, come città mi piace tutto. Non lo dico perché sono nato qui, ma geograficamente è una città favolosa. L’arrivo in Costiera, il mare. Ci sono altre città italiane che mi piacciono: adoro Roma, mi piace tantissimo anche Firenze. Ma Trieste è unica. Dei triestini? Mi piace il nostro spirito, il morbìn, ci ho scritto anche sopra una canzone. La voglia di vivere, vivere bene, star tranquilli. Spesso siamo tacciati di menefreghismo, per molti siamo solo quelli del viva l’A e po’ bon. Ma prendere tutto quanto con allegria è anche una risorsa, significa avere la capacità di guardare oltre gli ostacoli.
Cosa non ti piace invece?
La stessa cosa vista da un’altra prospettiva. Questa mancanza di vera ambizione. La tendenza a fermarsi prima di aver conseguito un obiettivo. La facilità a dire bon, dèi, ‘ndemo avanti. E’ un fatto endemico, molto triestino.
Cosa ti fa ridere dei triestini?
Aaah…(ride) tuto! Quello dei triestini è un mondo comico. Mi fa ridere il modo di parlare, il modo di atteggiarsi. Per non parlare dei personaggi che abbiamo a Trieste. Il triestino è di facile caricatura, perché ha delle caratteristiche riconoscibilissime. Pesa alle vecie nagane triestine, i bulli che vanno in giro per i bareti (“i bar di quartiere” n.d.r.). Sembra che siano brutti e cattivi: poi parli con loro e scopri che tante sono persone buone e semplici, con un mondo di sentimenti da raccontare anche se di fronte agli altri mettono la maschera dei “duri“. E’ bello scoprire quello che va al di là delle apparenze.
Nelle tue canzoni c’è molto dello spirito di frontiera, o meglio di una città che messa ai margini esprime una sua visione del mondo controcorrente, no?
Fa parte del gioco della parodia. In realtà il messaggio che voglio far passare è di apertura al mondo. Un po’ come accade nelle battute iniziali del video “Pedocìn”, dove una tipica nagana apostrofa un messicano che non sa pronunciare bene delle parole in dialetto: lì metto in evidenza i limiti del triestino per invitare tutti a superarli. Anzi, autorappresentandomi come triestino tipico e ironizzando sui suoi stereotipi, dò la prova che sono già oltre a quei limiti.
Il triestino è apparentemente chiuso, ma la sua storia e la sua collocazione geografica sul confine lo porta giocoforza ad essere aperto alla convivenza con realtà diverse. Molto spesso noi triestini siamo rappresentati solo negli aspetti di facciata.
Nelle parodie parti da Trieste per puntare il dito sugli aspetti divertenti dello show-business globale. Musica pop e cinema, non risparmi nessuno…
Io non ce l’ho con i singoli artisti, prova ne sia che non farei un’altra parodia di una canzone, che ne so, di Madonna o Lady Gaga. Certo che mi colpisce il fatto che la gente prenda le icone del pop così sul serio: in fondo gli idoli di adesso non portano avanti messaggi di valenza rivoluzionaria come avveniva quaranta-cinquanta anni fa. Oggi è tutto più de-ideologizzato, tutto più leggero. Il fanatismo nei confronti dello star-system fa perdere il senso di quello che realmente fanno gli artisti di oggi: intrattenimento, e basta. Facendo la parodia di Shakira o Fabri Fibra cerco di riportarli tutti a una dimensione più umana.
E’la stessa cosa che hai fatto con il film “Il Migliore” …
Qui c’entro poco. E’ stato il riconoscimento che ho voluto dare a Leo dei “Robe fate cacao” che da anni producono i miei video, fin da quando suonavo con “I Scoverciai”. Leo adora i B movies e da anni cullava il sogno di fare un cortometraggio per ridere sopra i peggiori film d’azione degli anni ’80, quelle robe becere in cui si mescolano scariche di pugni e pallottole a dialoghi impressionanti, in cui i personaggi si prendono troppo sul serio. Io lì recito la parte di un tale che si chiama “Nessuno”.
Come Ulisse con Polifemo. Riki Malva sta gettando la maschera. Altro che puro divertimento all’insegna del morbìn. Vuoi andare oltre?
Insomma, mi diverto a far divertire la gente. Ma ridere deve essere l’occasione per riflettere.
Meglio su Internet o sul palco?
Negli spettacoli dal vivo, non c’è confronto. Hai voglia a contare i “like” quando sei sul palco. Lì lo vieni a sapere veramente se vali qualcosa: quando conti le visite ad un video non sai mai a quanti è piaciuto veramente. Ai miei spettacoli viene gente di tutte le età, soprattutto ragazzi – ma anche gente più matura. Che siano 2000 come allo show a Barcola l’anno scorso o 70 persone come quindici giorni fa a Muggia poco importa: chi viene a sentirmi ha voglia di ridere e divertirsi e questo per me è contagioso, mi spinge sempre a dare il meglio come se fosse lo spettacolo della mia vita.