“Mia madre” di Nanni Moretti. Lacrime facili per la borghesia medio alta di età medio alta
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- Pubblicato Domenica, 26 Aprile 2015 15:38
- Scritto da Roberto Calogiuri
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Trieste – Anche questa volta Moretti ha colto nel segno. Con il suo solito intuito ha annusato l’aria e ha captato la verità di sempre: la mamma è sempre la mamma. La mamma è un caposaldo di ogni società, epoca o religione. A rappresentare la mamma non si può sbagliare. Tutti ce l’hanno e tutti si possono facilmente identificare.
Ma la morte della mamma è qualcosa di radicale, primordiale e assoluto: è un fatto che coinvolge e sconvolge nel profondo. Ma è un fatto privato. E Moretti porta sulla scena la morte della madre (la sua) pretendendo di farne un modello universale.
O, forse, non universale ma più modestamente rivolto al suo pubblico personale, quello affezionato, che lo apprezza e sa a cosa va incontro.
E infatti quello che si vede in questo film è la morte secondo Nanni Moretti: quindi una morte scolastica come la sua recitazione, linda come la sua coscienza, educata e senza drammi da quel bravo ragazzo che è, senza sensi di colpa, senza dubbi. Una morte perbene.
La morte perbene di una madre perfetta. E quindi con tutti i suoi corollari perbene: l’armoniosa intesa tra fratelli (Moretti e Buy), l’accordo idilliaco tra coniugi, il rapporto filiale con la giusta dose di dolce contrasto, la soavità dell’anziana insegnante (Giulia Lazzarini) che dà l’ultima lezione di latino alla nipotina con la maschera a ossigeno, gli ex alunni che ricordano una donna meravigliosa che sa scivolare nella morte in maniera indolore, i dialoghi lisci e puliti, il dolore educato e compassato .
Chi cerca il dramma non lo trova. Non ci sono sensi di colpa laceranti, rimpianti senza fine e rimorsi di coscienza. Questa è una fiaba mielosa e irreale, dove le corsie di ospedale sono sgombre e spaziose, le infermiere sono deliziose hostess, i medici sono caldi e disponibili.
Magari fosse questa la morte.
A parte la narrazione spesso confusa e slegata e i simbolismi di cui non sempre si intuisce il senso - giustificati (in parte) dalla presenza di qualche sogno montato con faciloneria psicologica - c’è qualcosa che può far riflettere: la scomposizione della famiglia, il disfacimento della memoria, qualche notazione metacinematografica, la difficoltà dei rapporti personali, la scuola, l'eredità culturale, i ragazzi che crescono eccetera.
Per questo motivo le platee sono divise tra “morettiani” e neutrali, chi piange fiumi di lacrime e chi rimane indifferente o, tuttalpiù ride per qualche battuta azzeccata. Tra chi inneggia al capolavoro e chi pensa di aver assistito a un esercizio di stile.
Ognuno ha i propri nodi emotivi. Se coincidono con le nevrosi di Nanni Moretti si piange e si ride. Altrimenti no. O addirittura ci si arrabbia un po’ per la retorica della buona famiglia della buona borghesia conformista, per il dramma dell’esistenza ridotto a didascalia in cui tutto scorre come in una telenovela.
La recitazione è in tono con l’atmosfera convenzionale e artificiosa del film. A parte, naturalmente, John Turturro che svetta per autorità e disinvoltura.
[Roberto Calogiuri]
FEFF17: "Ecotheraphy Getaway Holiday" diverte e indaga l'animo umano
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- Categoria: Cinema
- Pubblicato Sabato, 25 Aprile 2015 21:01
- Scritto da Redazione ilfriuliveneziagiulia.it
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Udine - Sette donne over 40, in cerca di tranquillità, partono per una vacanza di relax verso la natura incontaminata delle montagne giapponesi. Andrebbe tutto bene se non fosse per la loro guida, un dilettante alla prima esperienza, che ben presto scompare senza lasciare traccia di sé.
Parte da questo Ecotheraphy Getaway Holiday (2014) di Okita Shuichi, commedia proiettata sabato 25 aprile alle 9.15 al Far East Film Festival, presso il Teatro Nuovo Giovanni da Udine.
Il film racconta le avventure di un curioso gruppo di signore, perse nei boschi. Una comitiva al cui interno nascono subito rancori, diffidenze e rivalità, frammentandosi e riunendosi continuamente per sopravvivere in quel luogo lontano dal mondo e, al tempo stesso, così calmo e paradisiaco.
Le sette donne sono diverse tra di loro, nell'età e nel comportamento: Yumin (Chigusa Yasuzawa) è un'estetista che vuole fuggire alla propria età, mascherando la sua vita con bugie per non sentirsi esclusa dagli altri; Kuwaman (Mie Kirihara) e Kumi (Kumiko Kawada) non la smettono di parlare di parlare di problemi di salute, fino ad arrivare ad un umorismo acido; Sekki (Yuriko Ogino) è rimasta da poco vedova, ma nonostante dica di aver superato il lutto qualcosa è ancora rimasto infranto dentro di lei; Keiko (Keiko Tokunou) e Sumisu (Michiko Watanabe) hanno in comune l'amore per la fotografia e, infine, Junjun (Haruko Negishi) è succube di una quotidianità sedentaria e monotona, lontana dalle emozioni.
Dopo aver aspettato il ritorno della guida che era andata in avanscoperta, il gruppo decide di andarlo a cercare, ma ogni loro tentativo sfuma. Dopo aver camminato per ore, infatti, e sul punto di una crisi di nervi collettiva, le signore scelgono di accamparsi in attesa che qualcuno arrivi a salvarle.
E durante la notte ritornano con le emozioni a quando erano ragazze, come se quegli alberi che le circondano fossero le pareti della loro cameretta: ridono, si confidano segreti davanti al fuoco e dormono insieme, sotto un tappeto di foglie gialle e stelle.
Per lunghi tratti monotono e caratterizzato da un senso dell'humour molto sottile (in tipico stile nipponico), il film di Shuichi si salva per la sua profonda capacità di scavare in punta di piedi l'animo umano, toccando i sentimenti delle sette donne. Ognuna ha un talento e cerca qualcosa, anche se non sa bene cosa, e l'unico modo per raggiungerlo è essendo libera. Da ogni vincolo, perfino da sé stesse.
Far East Film 17: red carpet per Jackie Chan
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- Pubblicato Lunedì, 20 Aprile 2015 08:45
- Scritto da Fabiana Dallavalle
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Udine: le sorprese non mancano al Far East Film Festival!
Venerdì 24 aprile, dimostrando al di là di qualunque retorica che i sogni possono avverarsi, percorrerà il red carpet del diciassettesimo Far East Film Festival una delle più grandi star dello show biz mondiale.
Un’autentica leggenda che risponde al nome di Jackie Chan! Dopo la storica inaugurazione musicale di giovedì 23 aprile, che vedrà scintillare un altro mito assoluto come il giapponese Joe Hisaishi, sarà dunque l’idolo hongkonghese a rendere memorabile l’Opening Night del FEFF 17, presentando al pubblico il mega kolossal Dragon Blade di Daniel Lee (World Premiere dell’International Cut). Una delle maggiori produzioni nella storia dell’industria cinematografica cinese (nel cast, accanto a Jackie, Adrien Brody e John Cusack), dunque, per uno dei momenti clou nella lunga storia del Far East Film Festival! Se Jackie Chan, accettando l’invito del CEC di Udine, ha riconosciuto la reputazione internazionale che il FEFF ha saputo conquistarsi nell’arco del tempo, ha anche riconosciuto l’elemento base di cui il FEFF si nutre: la passione. La passione per il cinema, ovviamente, ma soprattutto la passione che accompagna le speranze, le sfide, le scommesse di ogni buon sognatore. Un’attitudine, una visione del mondo, che mister Chan conosce e, appunto, riconosce perfettamente, perché è l’inchiostro della sua biografia.
Non serve certo ripercorrerla interamente, quella vita straordinaria: c’è una filmografia monumentale, che parla per lei, e ci sono tonnellate di articoli, saggi, interviste. No, basta solo qualche minimo accenno, minimo davvero, per sorridere al Jackie Chan uomo prima ancora che al Jackie Chan artista (attore, produttore, sceneggiatore, regista, scrittore, doppiatore e, perfino, cantante!). Il Jackie Chan artista, d’altronde, è già ben rappresentato nel programma del Festival: oltre a Dragon Blade, infatti, sarà proiettato il cult The Young Master, punta di diamante della sezione dedicata alle Martial Arts hongkonghesi (curata dall’Hong Kong Film Festival nell’ambito del progetto dell’Hong Kong Economic Trade Office). Ha solo 8 anni, Jackie, quando debutta come attore in Big and Little Wong Tin Bar (1962), con Sammo Hung, poi, grazie alla sua abilità nelle acrobazie, diventa un richiestissimo stuntman, firmando un contratto con la casa di produzione Golden Harvest. Ancora adolescente riesce a conquistare ruoli sempre più importanti, soprattutto accanto al mitico Bruce Lee in Dalla Cina con furore (1972) e I 3 dell'Operazione Drago (1973).
Inizia quindi a recitare con registi come Lo Wei, Zhu Mu, Chen Chi-Hwa, Yuen Woo-Ping, John Woo e Stanley Tong. In una manciata di anni diventa uno degli attori più richiesti dello star system asiatico fino a dirigere e interpretare i suoi film (primo dei quali è The Young Master, 1980). Fonda una casa di produzione propria, la Golden Way, nonché l'agenzia di casting Jackie's Angels, ma soprattutto la scuola di stuntmen Jackie Chan Stuntmen Association. Poi arrivano la trasferta negli Stati Uniti con La corsa più pazza d'America (1981) accanto a Burt Reynolds e Dean Martin, l'amicizia con Sylvester Stallone e Steven Seagal, i 3 irresistibili Rush Hour di Brett Ratner. Il resto, come si dice, è storia. Anzi: leggenda!
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