Genocidio degli Armeni: il film tra incidente diplomatico e ricorrenza del centenario
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- Categoria: Cinema
- Pubblicato Domenica, 19 Aprile 2015 16:17
- Scritto da Roberto Calogiuri
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TRIESTE – Dalla Turchia, Siria e Libano a Cuba e poi negli Stati Uniti del nord. Attraverso due continenti e migliaia di chilometri si distende l’avventura de Il padre, l’eroe dell’ultimo film di Fatih Akin che conclude la trilogia su Amore, Morte e il Diavolo (dopo La sposa turca e Ai confini del paradiso) portando sul grande schermo la tragedia che afflisse il popolo armeno in Turchia nel 1915, alle soglie della grande guerra.
Il film esce nelle sale a qualche giorno dal 24 aprile, ricorrenza del centesimo anniversario di quello che gran parte degli storici ha definito come “il primo genocidio del XX secolo” ma che il governo turco – come dimostra l’incidente diplomatico avvenuto una settimana fa tra Ankara e il Vaticano – non vuole riconoscere, anche a costo di mantenere tesi i rapporti con l’Unione Europea.
Nel momento in cui si acuisce la questione negazionista, “Il padre” è stato proiettato ieri sera al cinema Ariston di Trieste con l’introduzione di Adriana Hovhannessian, attiva rappresentante della comunità armena nel capoluogo giuliano.
Hovhannessian ha sottolineato, con voce emozionata, come la vicenda raccontata da Akin rispecchi la realtà degli avvenimenti storico politici. In particolare come questa ricostruzione sia attendibile proprio perché proviene da un regista turco (seppur nato ad Amburgo) e quindi al di sopra dei sospetti di partigianeria.
Quindi ha aggiunto che questa storia, di cui ha apprezzato l'efficacia pur priva di scene di violenza, potrebbe anche aver mantenuto il titolo originale e molto efficace di “The Cut”.
Infatti un taglio metaforico pone una fine improvvisa e traumatica all’unità della famiglia. Così come un taglio reale priva della voce il protagonista: un uomo come tanti altri, di fede cristiana, un semplice fabbro che – sebbene diventato muto – rimane determinato e testardo e che percorre mezzo mondo alla ricerca delle due gemelle perdute durante la deportazione e le cosiddette “marce della morte”.
Una doppia ferita, quindi, in una figura che serve non solo a raccontare una tragedia etnica e a risvegliare temi attuali come la fuga dal proprio paese, l’emigrazione, l’integralismo religioso o la terribile condizione femminile. Serve anche a rappresentare la metafora della vita: c’è la gratuità del male e della malvagità, la morte dei consanguinei e della moglie, ma anche l’umanità disinteressata e benevolente, che va oltre l’appartenenza a un credo religioso o a un’etnia.
Il protagonista stesso si trova costretto a oltrepassare il labile confine tra bene e male perché in lui agisce – sopra ogni cosa – un formidabile istinto di conservazione e di sopravvivenza che ha come motore il ricongiungimento familiare e l’affetto paterno.
Non ci sono cedimenti alla poesia. Tutto è tragicamente vero e tangibile e non c’è niente di meglio delle parole stesse di Akin per definire questo soggetto: “È una storia di sopravvivenza, di ricerca e di spiritualità. Nazaret (il protagonista, ndr) perde la fede, si libera dei dogmi religiosi ma é guidato dalla speranza”.
Otto lunghi anni di gestazione per 138 minuti – come dice Martin Scorsese – “di intensità e bellezza grandiose” di cui Akin firma anche la sceneggiatura e la produzione, come se volesse personalmente ripianare i conti della Storia tra popolo armeno e governo turco. Ma non con il governo tedesco sebbene, in molte fonti accreditate, si parli della presenza di ufficiali germanici in collegamento con l’esercito turco nell’organizzare le “marce della morte”.
In definitiva, un film che, come la vita, finisce bene e male nello stesso tempo. Ma, come la vita, è a tratti veloce e coinvolgente, a tratti lento e monotono. Il volersi misurare con eccezionali episodi storici comporta il rischio di cedere al tono didascalico, talvolta manierista e di far trasparire, forse un po’ troppo spesso, la lezione hollywoodiana.
Da ricordare, nei panni di Nazaret, Tahar Ramin, l'attore francese di origine algerina lanciato nel mondo del cinema dal “Profeta” di Jacques Audiard.
[Roberto Calogiuri]