Il Museo del Vajont di Longarone, attimi per non dimenticare
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- Pubblicato Venerdì, 10 Ottobre 2014 15:31
- Scritto da Timothy Dissegna
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Longarone (Bl) - La vita è fatta di attimi, lo diceva già il latino Orazio a suo tempo. Ma nemmeno l'antico poeta si sarebbe mai immaginato che quella frase si sarebbe mostrata nella sua faccia più crudele, più di mille anni dopo l'Impero romano. Questione di pochi minuti e un Paese intero cambia, nel profondo dell'anima e sulla pelle, piangendo i propri figli scomparsi atrocemente.
Il Vajont è una storia che, dolorosamente, riguarda da vicino il Friuli Venezia Giulia. Perché quella sera del 9 ottobre 1963, alle 22.39, la l'onda che devastò i paesi e borghi della valle omonima partì proprio da questa regione, causata dal crollo di una parte del monte Toc pari a 260 mila metri cubi di roccia all'interno del bacino artificiale creato dalla diga da poco costruita.
Ciò che scaturì fu un gigantesco muro d'acqua alto 200 metri, lasciando intatta la costruzione ma facendo tabula rasa di case, vegetazione e, soprattutto, persone. Ciò non fu un tragico incidente, ma la terribile vendetta della natura per lo spregio che la SADE (Società adriatica di elettricità) ebbe verso essa nella realizzazione della diga, nascondendo nel silenzio i terribili presagi che preannunciavano il disastro. E a pagarne le conseguenze furono le 1917 persone che quella sera persero la vita, oltre ai feriti e ai parenti che videro la loro vita cambiare per sempre.
Del Vajont si è scritto tanto, troppo poco però prima dell'onda, e dietro questo nome ce ne sono moltissimi altri: Erto, Cassio, Longarone solo per dirne alcuni. Tutti sparsi tra la valle confinante oggi tra Friuli e Veneto, provincia di Pordenone e Belluno, e nonostante da quel giorno siano passati cinquantuno anni, le tracce rimangono ancora. Certo, i paesini sono stati ricostruiti e quello di Vajont è stato fatto nuovo poco più lontano; dovunque noti edifici molto più moderni rispetto a quelli degli anni '60 ma il segno sul Toc rimane ancora. Vedi lontano chilometri la sabbia lasciata dalla frana e la diga è rimasta la, anche se non viene più usata.
É a Longarone, in Veneto, che si trova il resoconto più agghiacciante di quella notte. Tutto nel Museo dedicato al disastro, finito di essere realizzato qualche anno fa e che ripercorre la storia del paese prima e dopo l'apocalisse. É un viaggio nella "piccola Milano", come era soprannominato il posto per la sua forte industrializzazione nella prima metà del '900, da cui si vede ancora oggi, proprio appena fuori dall'edificio, la diga alta 261,60 metri. Una cittadina così florente che, nel 1938, arrivò Mussolini in visita.
Entrando dentro sembra di essere in una cattedrale silenziosa, cupa sotto le ombre di dolore di quei innocenti spazzati via dall'acqua. Solo i suoni del documentario "Longarone Vajont, attimi di storia - moments of history", proiettato in una saletta vuota, riecheggiano tra le mura riempite di pannelli, foto, descrizioni di quello che una volta c'era lì.
Viene poi il capitolo della diga, una storia nata già nel '29, con la richiesta della SIU (successivamente acquistata dalla SADE) di usare il Vajont a scopo idroelettrico. Con la nuova proprietà si iniziano i lavori per il grande sistema idroelettrico che dureranno tre anni, impiegando 250 operai. La diga cresce di 60 cm al giorno e tutto sembra andare a gonfie vele. Sembra.
Non è vero che nessuno si oppose di fronte a tutto ciò. L'unica fu Tina Merlin, cronista locale de l'Unità, che puntò il dito varie volte contro la SADE ma le sue denuncie non vennero ascoltate. Intanto, nel '59, si scoprì che in epoca preistorica il Toc aveva avuto una frana e la relazione su ciò fu consegnata l'anno dopo, letta e posta in un cassetto. Troppo scomoda per i progetti della dirigenza.
Quella sera del '63 in TV c'era la partita di Coppa Campioni Real Madrid-Ranger Glasgow, appuntamento che aveva portato la gente dei paesi vicini a Longarone ad andare nei bar del paese per guardarsela tra amici. Ma non ci fu alcuna gioia, l'onda e la pressione dell'aria portarono via anche quella.
Le ultime parti del Museo sono dedicate al processo che ne seguì e alla risonanza mediatica che l'orrore ebbe. Le prime pagine di tutti i giornali europei e non solo gli furono dedicate per settimane, mentre il 20 febbraio 1968 iniziò l'iter processuale contro nove imputati tra cui SADE, ENEL e Ministero dei Lavori Pubblici. Le parti lese furono 250 e la fine del processo civile arrivò solo nel '99.
Uscendo dall'ultima stanza, foto di luoghi devastati si susseguono una dopo l'altra, insieme ai titoli dei giornali che denunciavano il ritardo dei lavori di ricostruzione. C'è da impallidire a osservarle tutte, sapere che nello stesso punto in cui ci si trova adesso, quasi cinquant'anni fa era tutto rasato al suolo dalla furia cieca dell'acqua. Forse sarebbe meglio riflettere prima di gridare all'allarme allagamenti dopo qualche giorno di pioggia, magari smetterla completamente di violentare la natura costruendo dove non si deve, e alla fine si potrà finalmente vivere in pace con lei.
Successo della raccolta fondi per "FRiKo" il gioco in scatola per la conquista del Friuli Venezia Giulia
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- Pubblicato Sabato, 04 Ottobre 2014 19:24
- Scritto da Redazione Ilfriuliveneziagiulia
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Trieste - Che il Friuli e Trieste siano due luoghi totalmente distinti ed incompatibili risulta chiaro anche al più sprovveduto degli stranieri: per uno che viene da Pordenone, tanto per citare una località ai confini del mondo, è inconcepibile chiedere un nero a Talmassons aspettandosi un caffè.
La diatriba infinita tra friulani e triestini, dopo le gustose parodie basate su Star Trek e Star Wars tradotte nei rispettivi idiomi, diventa ora l'ispirazione per un gioco da tavolo chiamato "FRiKo!", il cui scopo è la conquista del Friuli Venezia Giulia, la regione più ambita del mondo.
Frutto della mente vulcanica di Diego Manna e della penna di Erika Ronchin, giovani ricercatori triestini dotati del gusto del witz, la scatola richiama il famosissimo "RisiKo!" e si propone di far conoscere le culture, le tipicità ed i tic dei due territori irriducibilmente "nemici".
Al posto dei carrarmati a far da segnalino ci sono pacifiche porzioni di frico, piatto-bandiera del Friuli; a contrassegnare le opposte armate, i colori dei vini delle due regioni: Terrano per i triestini e Tocai per i friulani.
Ciascun giocatore, sei al massimo, può scegliere quale delle due popolazioni interpretare durante la partita. I triestini sono divisi in bobe, legere e nagane, i friulani in citadìns, contadìns e cjargnei.
A seconda della scelta, può usufruire nell'arco del gioco delle carte triestine o di quelle friulane, quaranta per ciascun mazzo, ognuna raffigurante un elemento caratteristico della tradizione locale.
Gli ideatori del gioco, dopo aver creato un prototipo fatto in casa, per produrre tutti i materiali hanno aperto una sottoscrizione su kisskissbankbank, un sito francese di raccolta fondi ("crowfunding").
Il passaparola ha funzionato ed ora l'obiettivo della colletta - 3000 euro - è stato superato: 134 kissbankers, con offerte che vanno dai 5 ai 500 euro, in 27 giorni, hanno fatto arrivare la raccolta a 3440 euro.
Il progetto ha conquistato anche i media nazionali, divenendo tema di un articolo sull'inserto "Nòva" del Sole 24Ore".
Non è il "Paese delle Meraviglie", il Friuli teme il terrorismo dietro la cornetta
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- Pubblicato Sabato, 06 Settembre 2014 00:22
- Scritto da Timothy Dissegna
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Udine - La notizia della telefonata anonima alla sede del Consorzio Acque del Friuli Centrale, in breve Cafc, in viale Palmanova a Udine è sicuramente poco tranquillizante.
L'episodio è ormai noto a tutti in regione, ma per chi se lo fosse "perso", ecco un breve riassunto del tutto: nel pomeriggio del 4 settembre l'ente che si occupa di rifornire i rubinetti dei cittadini di 83 comuni in provincia di Udine è stato contattato da una donna che, in italiano e inglese stentati, ha detto di far parte di un gruppo terroristico islamico e che una bomba si trovava all'interno dell'edificio.
Dopo aver minacciato di farla esplodere se la struttura non fosse stata evacuata, ha rivolto la stessa minaccia per Gorizia, Pordenone e ancora Udine.
Alla fine, riagganciando, il panico ha trovato terrerno fertile nei dipendenti (avvisata di ciò solo alle 17 però) e nella dirigenza che, nonostante "l'invito" della voce, ha sgomberato tutti gli uffici dopo l'arrivo dei carabinieri.
Nessun ordigno è esploso fortunatamente, né è stato trovato qualcosa di simile all'interno del Cafc. Si sa che il messaggio veniva da una registrazione lasciata in segreteria ma non è stata memorizzata, tanto che ora le forze dell'ordine stanno tentando di recuperarla per analisi e accertamenti.
L'audio, secondo quanto riferito dalla segretaria che l'ha ascoltato, era poco chiaro ma una frase le è rimasta impressa:
Entrambe figlie di ciò che sta succedendo in questi giorni, con lo spettro degli estremisti islamici dell'ISIS in Iraq e ancora di più dai terribili fatti dell'11/9. Anche se il Medio Oriente è lontano e noi non siamo gli USA, l'Italia non è estranea, ahimè, alla parola "terrorismo". Il nostro Paese è pur sempre un alleato degli americani, tanto più che proprio in Friuli, ad Aviano, c'è una loro base militare da cui partono gli elicotteri verso est.
Perché scegliere Udine per un attentato? E perché contro un ente minuscolo se paragonato a giganti come Eni, Enel o altri? Sui social network la notizia è stata immediatamente presa d'assalto dai commenti, più o meno "gentili", verso gli stranieri in generale. Senza però sapere se il pericolo era vero o si trattasse di uno scherzo imbecille come poi si è rivelato.
La voce non avrebbe, inoltre, nemmeno parlato in arabo per cui dire che è una di "quei beduini là" è abbastanza difficile. Certo é che, la prima impressione che hanno avuti tutti, è stata sentire la morte in gola. Perché una bomba a Udine significa il crollo di tutte le sicurezze che una cittadina di provincia assicura, buone o cattive che siano.
In contesti come questi dilaga facilmente la xenofobia, nata dalla scintilla di un semplice sospetto che trova consistenza nel terrore nero dell'Occidente. Basta un nulla per far gridare all'untore e oggi come oggi l'ultima cosa che serve a questo Paese, al mondo intero, è un'altra assurda caccia alle streghe. Sarà stato un semplice scherzo cretino, ma ha fatto morire di paura. Per fortuna soltanto di quella.
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