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Last updateLun, 27 Feb 2017 8pm

Il Museo del Vajont di Longarone, attimi per non dimenticare

Il Museo del Vajont di Longarone, attimi per non dimenticare

Longarone (Bl) - La vita è fatta di attimi, lo diceva già il latino Orazio a suo tempo. Ma nemmeno l'antico poeta si sarebbe mai immaginato che quella frase si sarebbe mostrata nella sua faccia più crudele, più di mille anni dopo l'Impero romano. Questione di pochi minuti e un Paese intero cambia, nel profondo dell'anima e sulla pelle, piangendo i propri figli scomparsi atrocemente.

Il Vajont è una storia che, dolorosamente, riguarda da vicino il Friuli Venezia Giulia. Perché quella sera del 9 ottobre 1963, alle 22.39, la l'onda che devastò i paesi e borghi della valle omonima partì proprio da questa regione, causata dal crollo di una parte del monte Toc pari a 260 mila metri cubi di roccia all'interno del bacino artificiale creato dalla diga da poco costruita. 

Ciò che scaturì fu un gigantesco muro d'acqua alto 200 metri, lasciando intatta la costruzione ma facendo tabula rasa di case, vegetazione e, soprattutto, persone. Ciò non fu un tragico incidente, ma la terribile vendetta della natura per lo spregio che la SADE (Società adriatica di elettricità) ebbe verso essa nella realizzazione della diga, nascondendo nel silenzio i terribili presagi che preannunciavano il disastro. E a pagarne le conseguenze furono le 1917 persone che quella sera persero la vita, oltre ai feriti e ai parenti che videro la loro vita cambiare per sempre.

Del Vajont si è scritto tanto, troppo poco però prima dell'onda, e dietro questo nome ce ne sono moltissimi altri: Erto, Cassio, Longarone solo per dirne alcuni. Tutti sparsi tra la valle confinante oggi tra Friuli e Veneto, provincia di Pordenone e Belluno, e nonostante da quel giorno siano passati cinquantuno anni, le tracce rimangono ancora. Certo, i paesini sono stati ricostruiti e quello di Vajont è stato fatto nuovo poco più lontano; dovunque noti edifici molto più moderni rispetto a quelli degli anni '60 ma il segno sul Toc rimane ancora. Vedi lontano chilometri la sabbia lasciata dalla frana e la diga è rimasta la, anche se non viene più usata. 

É a Longarone, in Veneto, che si trova il resoconto più agghiacciante di quella notte. Tutto nel Museo dedicato al disastro, finito di essere realizzato qualche anno fa e che ripercorre la storia del paese prima e dopo l'apocalisse. É un viaggio nella "piccola Milano", come era soprannominato il posto per la sua forte industrializzazione nella prima metà del '900, da cui si vede ancora oggi, proprio appena fuori dall'edificio, la diga alta 261,60 metri. Una cittadina così florente che, nel 1938, arrivò Mussolini in visita. 

Entrando dentro sembra di essere in una cattedrale silenziosa, cupa sotto le ombre di dolore di quei innocenti spazzati via dall'acqua. Solo i suoni del documentario "Longarone Vajont, attimi di storia - moments of history", proiettato in una saletta vuota, riecheggiano tra le mura riempite di pannelli, foto, descrizioni di quello che una volta c'era lì. 

Viene poi il capitolo della diga, una storia nata già nel '29, con la richiesta della SIU (successivamente acquistata dalla SADE) di usare il Vajont a scopo idroelettrico. Con la nuova proprietà si iniziano i lavori per il grande sistema idroelettrico che dureranno tre anni, impiegando 250 operai. La diga cresce di 60 cm al giorno e tutto sembra andare a gonfie vele. Sembra.

Non è vero che nessuno si oppose di fronte a tutto ciò. L'unica fu Tina Merlin, cronista locale de l'Unità, che puntò il dito varie volte contro la SADE ma le sue denuncie non vennero ascoltate. Intanto, nel '59, si scoprì che in epoca preistorica il Toc aveva avuto una frana e la relazione su ciò fu consegnata l'anno dopo, letta e posta in un cassetto. Troppo scomoda per i progetti della dirigenza.

Quella sera del '63 in TV c'era la partita di Coppa Campioni Real Madrid-Ranger Glasgow, appuntamento che aveva portato la gente dei paesi vicini a Longarone ad andare nei bar del paese per guardarsela tra amici. Ma non ci fu alcuna gioia, l'onda e la pressione dell'aria portarono via anche quella.

Le ultime parti del Museo sono dedicate al processo che ne seguì e alla risonanza mediatica che l'orrore ebbe. Le prime pagine di tutti i giornali europei e non solo gli furono dedicate per settimane, mentre il 20 febbraio 1968 iniziò l'iter processuale contro nove imputati tra cui SADE, ENEL e Ministero dei Lavori Pubblici. Le parti lese furono 250 e la fine del processo civile arrivò solo nel '99. 

Uscendo dall'ultima stanza, foto di luoghi devastati si susseguono una dopo l'altra, insieme ai titoli dei giornali che denunciavano il ritardo dei lavori di ricostruzione. C'è da impallidire a osservarle tutte, sapere che nello stesso punto in cui ci si trova adesso, quasi cinquant'anni fa era tutto rasato al suolo dalla furia cieca dell'acqua. Forse sarebbe meglio riflettere prima di gridare all'allarme allagamenti dopo qualche giorno di pioggia, magari smetterla completamente di violentare la natura costruendo dove non si deve, e alla fine si potrà finalmente vivere in pace con lei. 

Chi siamo

Direttore: Maurizio Pertegato
Capo redattore: Tiziana Melloni
Redazione di Trieste: Serenella Dorigo
Redazione di Udine: Fabiana Dallavalle

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