Star bene
Allarme per i golosi: si mangia sempre più cioccolato, il cacao inizia a scarseggiare
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- Pubblicato Lunedì, 17 Novembre 2014 22:52
- Scritto da Redazione Ilfriuliveneziagiulia
Cioccolato che passione: ma per quanto tempo ancora potremo permettercelo? Il cacao sta scarseggiando sempre di più: è l'allarme lanciato da due delle più grosse ditte produttrici di snack e barrette, le multinazionali Mars e Barry Callebaut, come riferisce il quotidiano statunitense Washington Post in un articolo del 15 novembre.
Il prezzo del cacao sui mercati internazionali è aumentato del 13,3% dall'inizio dell'anno.
Da una parte c'è una domanda crescente di cacao, trainata anche dalla Cina, da poco entrata a far parte della schiera degli appassionati di cioccolato; dall'altra cambiamenti climatici e malattie delle piante hanno ridotto fortemente la produzione.
Il risultato è che gli agricoltori producono meno cacao rispetto a quello che viene consumato, e l'industria prevede che il divario tra produzione e consumo si allargherà ulteriormente. Nel 2013 sono state consumate circa 70.000 tonnellate di cacao in più di quanto ne sia stato prodotto.
I due produttori di cioccolato avvertono che nel 2020 la cifra potrebbe arrivare a 1 milione di tonnellate, ed entro il 2030 potrebbe raggiungere i 2 milioni.
In Africa occidentale (in particolare in Costa d'Avorio e Ghana, dove si produce oltre il 70% del cacao) la siccità ha fatto drasticamente calare la produzione. Per soprammercato, un fungo particolarmente letale ha attaccato le piante.
L'Organizzazione Internazionale dei Paesi produttori di cacao stima che questi due disastri abbiano spazzato via tra il 30% e il 40% della produzione mondiale di cacao. Molti agricoltori, per evitare futuri possibili rischi, si sono spostati su colture più sicure, come il mais.
Da parte dei consumatori, la fame di cioccolato è ormai insaziabile e raggiunge nuovi palati: il crescente amore della Cina per le tavolette desta una certa preoccupazione.
I cinesi stanno mangiando sempre più cioccolato, eppure consumano solo circa il 5 per cento di ciò che mangia la media dei consumatori dell'Europa occidentale, che è pari a 2,5 kg di cioccolato a persona l'anno.
In più, cresce la preferenza dei consumatori per il cioccolato amaro fondente, che contiene molto più cacao rispetto alle tavolette di cioccolato più popolari (una tavoletta di cioccolato di qualità media contiene circa il 10% di cacao, mentre le tavolette di cioccolato amaro ne contengono spesso più del 70%).
Due lampi nel buio: Malala e Satyarthi Nobel per la pace "eroi del quotidiano"
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- Pubblicato Domenica, 26 Ottobre 2014 15:09
- Scritto da Silvano Magnelli
Trieste - Se c’è un sentimento che ci accomuna oggi è la sensazione, a mio avviso eccessiva, di totale incertezza, di buio disperato e di malumore generalizzato.
Non che non ce ne siano i motivi e purtroppo in abbondanza, eppure credo che si continui a cogliere solo alcuni aspetti parziali della realtà, come se stessimo perdendo quell’istinto di promozione e di risalita, che da sempre è stato la fortuna nascosta e sempre pronta ad emergere dell’essere semplicemente uomini.
Recentemente dentro questo assetto planetario rabbuiato, sono apparse due personalità luminose, che richiamano in campo quelle energie nascoste e poco praticate, senza le quali purtroppo l’oscurità può avere la meglio.
Il Premio Nobel per la Pace è stato assegnato quest’anno alla pari a due sconosciuti cittadini asiatici, una pachistana di appena 17 anni, di fede musulmana, e ad un operatore sociale indiano. La decisione del comitato dei saggi di Oslo ha il timbro della clamorosa novità e per molti motivi.
Con questo premio inconsueto si è voluto dare infatti un riconoscimento a quella moltitudine di “piccoli e invisibili” eroi del quotidiano, che in tutto il mondo tengono letteralmente il mondo stesso sulle spalle, facendo bene il proprio dovere e spesso qualcosa in più, un’armata di pace senza armi, tranne quelle dell’impegno altruistico e della responsabilità, che non solo esiste ed opera, ma rende la vita accettabile a molti altri esseri umani.
Malala e Satyarthi sono infatti due bellissimi volti nuovi e alternativi: la prima, una ragazza coraggiosa schierata per il diritto all’istruzione delle donne in Pakistan e per questo vittima di un attentato, e l’altro un liberatore di ben 80.000 bambini dalla schiavitù del lavoro clandestino.
Si tratta appunto di due sconosciuti “piccoli e invisibili”, che si sono spesi per molti ancora più piccoli, invisibili e deboli di loro.
Ma c’è di più: questo premio ha voluto decretare la condanna senza appello delle folate di violenza che stanno agitando le terre mediorientali o altre zone, e diradare inoltre la nebbia dell’indifferenza sui drammi collettivi nascosti e ignorati.
E c’è ancora da aggiungere che i prescelti sono appartenenti a comunità religiose che troppo sbrigativamente gli occidentali relegano nell’angolo dei pregiudizi, come se da esse possano sortire solo fanatismo e terrorismo.
Quelle comunità producono invece persone di alto livello, dei veri e propri “angeli custodi”, che rilanciano a tutti noi pensieri e comportamenti di enorme valore umano e spirituale, di cui forse proprio noi abbiamo particolarmente bisogno.
Una scelta perciò decisamente per la vita contro la morte fabbricata da altri e una scelta contro ogni forma di fanatismo e di fondamentalismo religioso, ideologico o politico che sia, per cui purtroppo si vedono ritornare in auge fedeli di tutte le religioni, ideologi e politici con un unico abito mentale da indossare e da far indossare, impegnati solo a costringere altri a pensarla come loro, impermeabili a qualsiasi tentativo di dialogo, orbitanti solo su se stessi, distanti da ogni diversità, che vivono come un attacco alle proprie sicurezze.
Malala e Satyarthi, riprendendo invece le grandi tradizioni non violente e misericordiose delle loro civiltà islamiche e induiste, le stanno connettendo naturalmente con le altrettanti grandi tradizioni del cristianesimo non violento, profetico e misericordioso e con l’umanesimo laico, immettendo così germi di fraternità in un momento di buio pesto e lanciando così due veri e propri lampi in questo buio.
Silvano Magnelli
Il Museo del Vajont di Longarone, attimi per non dimenticare
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- Pubblicato Venerdì, 10 Ottobre 2014 15:31
- Scritto da Timothy Dissegna
Longarone (Bl) - La vita è fatta di attimi, lo diceva già il latino Orazio a suo tempo. Ma nemmeno l'antico poeta si sarebbe mai immaginato che quella frase si sarebbe mostrata nella sua faccia più crudele, più di mille anni dopo l'Impero romano. Questione di pochi minuti e un Paese intero cambia, nel profondo dell'anima e sulla pelle, piangendo i propri figli scomparsi atrocemente.
Il Vajont è una storia che, dolorosamente, riguarda da vicino il Friuli Venezia Giulia. Perché quella sera del 9 ottobre 1963, alle 22.39, la l'onda che devastò i paesi e borghi della valle omonima partì proprio da questa regione, causata dal crollo di una parte del monte Toc pari a 260 mila metri cubi di roccia all'interno del bacino artificiale creato dalla diga da poco costruita.
Ciò che scaturì fu un gigantesco muro d'acqua alto 200 metri, lasciando intatta la costruzione ma facendo tabula rasa di case, vegetazione e, soprattutto, persone. Ciò non fu un tragico incidente, ma la terribile vendetta della natura per lo spregio che la SADE (Società adriatica di elettricità) ebbe verso essa nella realizzazione della diga, nascondendo nel silenzio i terribili presagi che preannunciavano il disastro. E a pagarne le conseguenze furono le 1917 persone che quella sera persero la vita, oltre ai feriti e ai parenti che videro la loro vita cambiare per sempre.
Del Vajont si è scritto tanto, troppo poco però prima dell'onda, e dietro questo nome ce ne sono moltissimi altri: Erto, Cassio, Longarone solo per dirne alcuni. Tutti sparsi tra la valle confinante oggi tra Friuli e Veneto, provincia di Pordenone e Belluno, e nonostante da quel giorno siano passati cinquantuno anni, le tracce rimangono ancora. Certo, i paesini sono stati ricostruiti e quello di Vajont è stato fatto nuovo poco più lontano; dovunque noti edifici molto più moderni rispetto a quelli degli anni '60 ma il segno sul Toc rimane ancora. Vedi lontano chilometri la sabbia lasciata dalla frana e la diga è rimasta la, anche se non viene più usata.
É a Longarone, in Veneto, che si trova il resoconto più agghiacciante di quella notte. Tutto nel Museo dedicato al disastro, finito di essere realizzato qualche anno fa e che ripercorre la storia del paese prima e dopo l'apocalisse. É un viaggio nella "piccola Milano", come era soprannominato il posto per la sua forte industrializzazione nella prima metà del '900, da cui si vede ancora oggi, proprio appena fuori dall'edificio, la diga alta 261,60 metri. Una cittadina così florente che, nel 1938, arrivò Mussolini in visita.
Entrando dentro sembra di essere in una cattedrale silenziosa, cupa sotto le ombre di dolore di quei innocenti spazzati via dall'acqua. Solo i suoni del documentario "Longarone Vajont, attimi di storia - moments of history", proiettato in una saletta vuota, riecheggiano tra le mura riempite di pannelli, foto, descrizioni di quello che una volta c'era lì.
Viene poi il capitolo della diga, una storia nata già nel '29, con la richiesta della SIU (successivamente acquistata dalla SADE) di usare il Vajont a scopo idroelettrico. Con la nuova proprietà si iniziano i lavori per il grande sistema idroelettrico che dureranno tre anni, impiegando 250 operai. La diga cresce di 60 cm al giorno e tutto sembra andare a gonfie vele. Sembra.
Non è vero che nessuno si oppose di fronte a tutto ciò. L'unica fu Tina Merlin, cronista locale de l'Unità, che puntò il dito varie volte contro la SADE ma le sue denuncie non vennero ascoltate. Intanto, nel '59, si scoprì che in epoca preistorica il Toc aveva avuto una frana e la relazione su ciò fu consegnata l'anno dopo, letta e posta in un cassetto. Troppo scomoda per i progetti della dirigenza.
Quella sera del '63 in TV c'era la partita di Coppa Campioni Real Madrid-Ranger Glasgow, appuntamento che aveva portato la gente dei paesi vicini a Longarone ad andare nei bar del paese per guardarsela tra amici. Ma non ci fu alcuna gioia, l'onda e la pressione dell'aria portarono via anche quella.
Le ultime parti del Museo sono dedicate al processo che ne seguì e alla risonanza mediatica che l'orrore ebbe. Le prime pagine di tutti i giornali europei e non solo gli furono dedicate per settimane, mentre il 20 febbraio 1968 iniziò l'iter processuale contro nove imputati tra cui SADE, ENEL e Ministero dei Lavori Pubblici. Le parti lese furono 250 e la fine del processo civile arrivò solo nel '99.
Uscendo dall'ultima stanza, foto di luoghi devastati si susseguono una dopo l'altra, insieme ai titoli dei giornali che denunciavano il ritardo dei lavori di ricostruzione. C'è da impallidire a osservarle tutte, sapere che nello stesso punto in cui ci si trova adesso, quasi cinquant'anni fa era tutto rasato al suolo dalla furia cieca dell'acqua. Forse sarebbe meglio riflettere prima di gridare all'allarme allagamenti dopo qualche giorno di pioggia, magari smetterla completamente di violentare la natura costruendo dove non si deve, e alla fine si potrà finalmente vivere in pace con lei.
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