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Last updateLun, 27 Feb 2017 8pm

Cultura

“Incroci eterogenei”: una collettiva presentata da Emila Marasco

“Incroci eterogenei”: una collettiva presentata da Emila Marasco

Trieste - Sabato 9 aprile 2016, alle ore 18.30, nello spazio espositivo del mini mu a Trieste, all’interno del comprensorio del parco di san Giovanni,  si terrà l’apertura della mostra “Incroci eterogenei”, un discorso a sei voci, intrecciate da Emilia Marasco.

Le bottiglie in fila di Morandi sembrano raccontarci che l’arte è una cosa che si fa la sera, a casa, quando il caos del mondo esterno si ordina tra quelle quattro mura che sole conoscono il nostro abbandono. Bottiglie dipinte su una superficie più piccola di una finestrina, protette da una luce calda e calma: un velo di colore che accompagna il ripetersi delle forme in una pratica sincera e saggia, pari a quella del pregare o del camminare. L’arte così intesa forse non è stata mai alla ricerca frenetica della novità, elemento indispensabile oggi per poter avere diritto di parola, quasi che la frase “niente di nuovo” significasse “niente di buono” (o forse la forzatura di oggi serve solo a coprire una certa prigrizia, un senso di vuoto che prende nel girare in tondo alle grandi e piccole mostre, al disagio di una mancata percezione tra la propria realtà e quella che ci troviamo di fronte, talvolta brutta, cattiva, incomprensibile, abbandonandoci infine a fingere di  comprendere quello che più va di moda).

Forse, ma non sempre è così, dato che questa mostra è testimonianza di sei modi diversi di confrontarsi con l’immagine e in maniera non eclatante. E allora, a fianco di tanta arte oggettuale da maceria, da accatastamento, da attraversamento sistematico dell’avanzo, dell’orpello, della denuncia, della solitudine, della casualità e della pubblicità, ancora, in silenzio, l’immagine rivive e si rinnovella. Essa procede per passi piccolissimi: nell’intera vita di un pittore la trasformazione di un piccolo segno, impercettibile ai più, può costituire il più grande tesoro. E quando tanti piccoli segni maturano assieme, confluendo nell’unico flusso della storia, accade qualcosa e qualcuno raccoglie il messaggio, e infine lo crea. È un lavoro corale, un amore smisurato per il ritorno a casa nell’ora serale, per questo ordinare meticolosamente i pensieri, per questo praticare con le mani e con il tempo, per questo guardare e riguardare, attendere, dormire, sognare, lavorare. Dal nulla nasce una forma, nasce un mondo nuovo, nasce un’idea della vita, piccola, tra lo studio, la cucina, il letto, lo squillo del telefono, il libro più caro.

Non c’è competizione tra coloro che dipingono mondi fantasiosi e quelli che assemblano frammenti di vita per salvarla dall’oblio: sono solo pratiche diverse che tentano comunque di svincolarsi dalle regole del mondo per ricavarsi una libertà di coscienza personale. Si tratta di un progetto che, nel suo insieme e nelle sue varie articolazioni, intende mettere a confronto il lavoro di più autori, di certo diversi per  formazione, provenienza, poetica e frequentazioni, ma con opere che, sulla base di un tracciato coloristico e narrativo, possono offrire il destro a un confronto serrato e costruttivo, e divenire, allo stesso tempo, un punto di meditazione sui confini e le possibilità espressive e narrative dell’arte contemporanea.  In conclusione possiamo dire di trovarci in presenza di svariate modalità narrative, ma anche di relazioni artistiche vissute come sperimentazione quotidiana.

Gli artisti che qui sono messi in dialogo parlano per mezzo di dettagli, con tinte squillanti o con la solidità cupa del bianco e nero, eppure tutti e sei propongono figure identificabili, convincenti e propositive. Ecco i loro nomi: Elisabetta Bacci, Carlo Fontana, Maurizio Morassutti, Annalisa Pisoni Cimelli, Giovanni Pulze, Antonio Sofianopulo.

Il catalogo, pubblicato da Juliet editrice, sulla falsariga dei suoi consueti extra issues, contiene oltre a un saggio della curatrice, Emilia Marasco, le schede degli artisti firmate da Gianfranco Paliaga.

L’iniziativa, realizzata sotto l’egida della Provincia di Trieste, è stata organizzata con il concorso dell’Associazione Juliet, dell’Azienda Agricola Sandi Škerk e Sara Residence, chiuderà il 15 maggio.

Orario di visita: lunedì,  mercoledì,  venerdì dalle 16.00 alle 18.00. 

Per ulteriori info: 393 9706657.

Al via l’iniziativa “La natura nell’arte” nell’ambito della rassegna di eventi “In primavera a Trieste!”

Al via l’iniziativa “La natura nell’arte” nell’ambito della rassegna di eventi “In primavera a Tries

Trieste - Sarà l'iniziativa “La natura nell’arte" realizzata in collaborazione con la Fondazione CRTrieste a fare da apripista alla rassegna “In primavera a Trieste!” nel calendario della quale è inserita.

Promossa dalla Cooperativa Agricola Monte San Pantaleone e giunta alla sua quarta edizione consecutiva “In primavera a Trieste!” aprirà a uno sguardo diverso sulla città, mostrando la ricchezza dei suoi giardini e dei suoi musei, con una varietà di proposte culturali che si articoleranno fino al 21 giugno.

Si parte dunque da venerdì 8 aprile alle ore 17.00 con “La natura nell'arte”. Dopo le apprezzate visite alla Collezione “Arte e Industria” Stock e l’importante mostra "Cento Novecento. Un secolo d’arte in cento opere della Collezione Fondazione CRTrieste", la Fondazione CRTrieste propone una nuova occasione per conoscere alcuni dipinti tra gli oltre 400 capolavori del suo patrimonio artistico.

Saranno una dozzina le opere a disposizione del pubblico, che sarà condotto nella visita dallo storico dell'arte Matteo Gardonio, già autore del catalogo generale delle opere della Collezione d'Arte della Fondazione CRTrieste.

Uno spaccato, quello che verrà offerto, che riflette e valorizza, tenendo quale filo conduttore il tema della Natura, l’ampia Collezione con una selezione di opere di respiro internazionale, il capolavoro della collezione Arte e Industria Stock (Ragazza con fiore di Franco Gentilini) e alcune testimonianze altissime di arte triestina.

Tra gli altri si potranno ammirare i Narcisi Gialli, un acquerello di Maria Lupieri, emersa fra generazioni diverse di pittori e intellettuali, della quale la Fondazione possiede un nucleo di opere risalenti soprattutto alla metà degli anni Cinquanta. Narcisi quali fiori che annunciano la primavera, che portano sollievo all'ultima fase della pittrice poco prima della scomparsa avvenuta nel 1961.

Oppure altre rappresentazioni floreali come in Vaso di fiori di Edoardo Devetta, dove l'artista tenta una naturale tessitura matissiana, o ancora in Tor Cucherna di Vittorio Bergagna, appartenente all'ultima e "argentata" fase dell'artista, che riporta a ricordi del francese Pierre Bonnard.

Ma non ci saranno solo i fiori: in Aranceto a Ortona di Michele Cascella, olio su tavola del 1957, si ritrovano temi cari al pittore, alle cui opere come scrive Vittorio Sgarbi "è difficile sottrarsi al fascino" per una limpida visione, specie di questi aranceti dall'intenso colorismo.

Si entrerà anche in paesaggi familiari come nel dipinto Nostro Carso, opera tardiva di Guido Grimani, che dimostra assimilazioni dell'artista dalla pittura napoletana tardo-ottocentesca.
In esposizione anche Nudo femminile, di Umberto Veruda, una magnifica Vanitas, che con sguardo inquieto dei primi del Novecento poggia le mani rispettivamente su un teschio e su un rigoglioso bouquet floreale.

Ricordiamo che le visite guidate sono gratuite e aperte a tutti, e si svolgeranno nella sede della Fondazione CRTrieste (Trieste, via Cassa di Risparmio 10, 3° piano) ogni venerdì della settimana alle ore 17.00 a partire dall’8 aprile fino al 27 maggio.

Il numero massimo sarà di venti persone a visita. Obbligatoria la prenotazione che deve essere effettuata entro le ore 17.00 del giorno antecedente la visita (giovedì) al numero +39 040 3476081 (lun-ven. ore 10-13 e 15-17) o all'indirizzo e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Trieste in copertina. Presentazione del libro sulla storia dell’arte urbana. Intervista all'autrice

Trieste – Quando l’artista scende in strada, cosa accade? Se non rimane chiuso nel suo studio, quando le sue opere escono dal perimetro di un museo o di una galleria, avviene qualcosa di speciale, qualcosa che possiede effetti e ripercussioni non solo estetici ma anche sociali e politici.

Questo è uno dei (tanti) motivi che hanno spinto Alessandra Pioselli* – critico e docente di Storia dell’arte contemporanea – a scrivere “L’arte nello spazio urbano” che sarà presentato venerdì 4 marzo alle ore 18 presso il Caffè San Marco a Trieste. All’incontro parteciperanno, oltre all’autrice, Elisa Vladilo e Adriana Torregrossa, due artiste presenti nel libro e nella scena artistica contemporanea.

Il libro, corredato da un interessante apparato fotografico, porta come sottotitolo “L’esperienza italiana dal 1968 a oggi” e reca in copertina un’installazione realizzata da Elisa Vladilo, proprio a Trieste nel 2007 sul molo Audace. Torregrossa compare per “Art.2”, l’operazione che nel 1997, a Torino, diede pubblicità alla preghiera di fine Ramadan e riuscì pienamente, sollecitando l’interesse de “La Stampa” e la reazione della Lega.

Quindi abbiamo chiesto direttamente a Pioselli il significato di questo suo saggio sull’arte urbana, la sua importanza nel momento presente e il rapporto con la storia contemporanea.

La copertina con l’intervento di Elisa Vladilo a Trieste è una pura scelta editoriale oppure ha un significato? Il progetto di Elisa Vladilo è un esempio interessante di intervento per uno spazio pubblico: una pausa di sospensione giocosa che ha invitato le persone a rilassarsi, poiché su un morbido tappeto azzurro ci si può anche sdraiare. Il progetto si fondava sul valore comunicativo del colore e sulla valenza tattile, perché l’intervento era fatto di materiali soft. Il tatto è un senso solitamente negato nello spazio urbano. L’intervento portava le persone a relazionarsi in modo immediato, senza filtri. Le immagini di “My favourite place” mantengono questa dimensione comunicativa. In questo senso, è anche una scelta editoriale.

Perché il punto di inizio scelto per la sua indagine è il 1968? Il 1968 è un anno simbolico. Attorno vi si concentrano anche in Italia numerose operazioni di artisti, happening, mostre o azioni in “piazza”, per ovvie ragioni storiche, assieme all’emergere della discussione attorno alla partecipazione, al ruolo sociale dell’arte, al rapporto tra estetica e militanza politica che permea ogni ambito creativo. Si pongono sul tavolo temi di peso, dalla critica all’idea stessa di partecipazione nel momento della sua esplosione, che offre spunti ancora interessanti. La storia, però, si può iniziare prima, come il ‘68 inizia prima del fatidico anno. Si può andare a ritroso nella Storia.

Invece, parlando di presente: siamo vicini alle elezioni amministrative. Come vede l’inserimento di un artista in un team elettorale? È mai accaduto? Non credo. Non so neppure se gioverebbe all’artista, in quanto tale, fare parte di una squadra politica. La pubblica amministrazione deve pensare al governo del bene pubblico. Per questo motivo, essa può essere un interlocutore dell’artista, cui però l’indipendenza fa bene. Il problema è che spesso la politica agisce in senso settoriale: a ogni assessorato le sue competenze, ma la pratica artistica può essere quel territorio “infra” che permette di connettere le politiche. Potrebbe essere sfruttata come strumento di congiuntura non convenzionale tra le politiche della cultura, della riqualificazione urbana, del sociale e dell’educazione. Spesso, invece, l’arte è competenza esclusiva degli assessorati alla Cultura, che la concepiscono in termini più tradizionali, generalmente parlando.

Ma allora cosa può fare l’artista nella dimensione collettiva? Non c’è una risposta semplice. Bisogna chiarire che l’artista non è un assistente sociale e che l’arte non può supplire alla mancanza di altre politiche pubbliche. È un ruolo culturale di creazione di immaginari, potenzialmente trasformativi dell’esistenza individuale e collettiva. Qui sta il valore sociale dell’azione culturale. È vano cercare risultati immediati, diretti, contabilizzabili. Bisogna avere fiducia nel processo lento, nella sua estensione temporale. Credo che la pratica artistica sia capace di micro azioni, un costante lavorio senza proclami, ma capace di accendere qualcosa che chiama in causa l’impegno degli altri, attraverso il corpo, l’immaginario, il pensiero.

E la collettività come risponde a questi stimoli? Il panorama dell’arte è articolato e, al contempo, non esiste un’opinione pubblica coesa e compatta: gli incontri e gli esiti sono variabili. Le opinioni pubbliche possono mutare nel tempo. Un’opera rifiutata può, in futuro, scatenare affezione. Le cose cambiano a seconda dell’investimento simbolico e affettivo, e del mutamento sociale. Nulla è immobile. L’artista, però, ha una responsabilità, perché assieme al curatore e al critico deve mediare tra gli attori coinvolti. Sono relazioni dialogiche ma il dialogo è dialettica, non pacificazione forzata, a tutti i costi.

Com’è la situazione italiana rispetto al resto d’Europa?  L’Italia non ha avuto, a differenza del mondo anglosassone o di altri paesi, i cosiddetti programmi d’arte pubblica. Il problema dell’Italia, però, sta a monte. È nella disattenzione, interessata, al territorio come bene pubblico. Il tema della città è disatteso a livello di Governo. La sinistra lo ha abbandonato negli anni ottanta. Le amministrazioni locali se ne occupano in modo variabile. A livello politico e mediatico, si parla di spazio pubblico e urbano principalmente nei termini di ordine pubblico e di divieto. Mi sembra che non ci sia grande consapevolezza, da parte dell’opinione pubblica, dell’importanza di non lasciare che lo spazio pubblico soccomba. Ecco, la ricerca artistica su questo può intervenire, sensibilizzare. L’attenzione verso la cosiddetta “arte pubblica” – uso l’etichetta di comodo – non può disgiungersi dall’attenzione verso i temi territoriali. Se governi, media, istituzioni, amministrazioni non considerano i nessi, significa che l’arte viene considerata un decoro, un giochino o una coperta per nascondere problemi non risolti.

E così è nata l’idea di questo libro… con ben 90 pagine sul periodo tra ’68 e ’79… È una scelta dovuta a diverse ragioni. Innanzi tutto, il libro ha origine da una mostra, “Fuori! Arte e spazio urbano 1967-1976”, curata dalla sottoscritta e da Silvia Bignami al Museo del Novecento nel 2011. Con il libro, mi interessava sia fare il punto su un momento cruciale per i temi (e problemi) della “partecipazione” e della “crisi della città” in Italia, ovvero gli anni sessanta - settanta, sia portare allo scoperto anche esperienze meno conosciute e meno storicizzate di quei decenni. Per questo, la concentrazione su quel lasso di tempo, che prende in esame anche il passaggio del 1978-79. Ma gli anni ’90 sono altrettanto significativi c’è: ci sono generazioni di artisti (e critici) in Italia molto sensibili, attenti, che vivono sulla pelle un cambiamento socio-politico importante. Sono gli anni in cui si afferma la Lega Nord, Berlusconi, in cui cresce l’immigrazione diventando una questione politica. Queste generazioni si interrogano sul proprio ruolo, si pongono in discussione, vogliono calarsi nella realtà, lavorare con gli altri. Sono state fatte opere e operazioni molto forti, che hanno aperto un varco per le successive generazioni. La dimensione relazionale dell’arte italiana di quel periodo ha una valenza affettiva, soggettiva, a volte intima, che è un’altra piega peculiare.

E cosa accade dopo?Ho scelto di non analizzare nel dettaglio la scena da circa il 2000 in avanti ma di concludere con un discorso più generale e critico sulla partecipazione e su alcune linee di sviluppo. Gli ultimi quindici anni circa hanno registrato in Italia l’esplosione di interventi artistici che spendono parole come partecipazione, relazione, comunità, collaborazione territoriale. Queste parole fanno parte, inoltre, del lessico politico. Il rischio è anche di adottare format buoni per qualsiasi occasione o di pensare alla partecipazione in senso strumentale o secondo logiche di marketing. La scena è complessa, gremita di situazioni, fin troppo. Inoltre, gli strumenti della critica d’arte hanno dei limiti. I casi andrebbero letti anche con strumenti sociologici, di indagine “sul campo”, difficile da compiere e ciò è vero anche per il passato.

Ancora una volta, dunque, la storia aiuta a riflettere sul presente…Il panorama progettuale italiano è qualificato da una particolare attenzione al confronto con il paesaggio storico. Per questo tema, anche a livello politico, gli anni sessanta sono fondamentali. Lo sono anche per la crisi della città italiana, che ho messo programmaticamente in apertura del libro. C’è il substrato storico e c’è la speculazione edilizia, il patto malsano tra politica e affari (anche illeciti), il “blocco edilizio” di cui parla Valentino Parlato sul “Il Manifesto” nel 1970, con le ricadute pesanti sulla (non) gestione del territorio. La pratica artistica che si confronta con lo spazio urbano in Italia fa i conti anche con questo. Ciò che succede nel secondo Dopoguerra è cruciale e riverbera sull’oggi.

Alessandra Pioselli, L’arte nello spazio urbano, Johan & Levi Editore, pp. 220, € 21

*Alessandra Pioselli è critico, curatore d’arte contemporanea e direttore dal 2010 dell’Accademia di Belle Arti G. Carrara di Bergamo. È docente di Storia dell’arte contemporanea presso la stessa accademia e di Arte Pubblica presso il Master in economia e management dell’arte e dei beni culturali del Sole24Ore(Milano). Collabora con la rivista Artforum (New York)

(In apertura, particolare della copertina: Elisa Vladilo, My Favourite Place, 2007)

[Roberto Calogiuri]

 

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