Trieste in copertina. Presentazione del libro sulla storia dell’arte urbana. Intervista all'autrice
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- Categoria: Arte
- Pubblicato Martedì, 01 Marzo 2016 20:18
- Scritto da Roberto Calogiuri
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Trieste – Quando l’artista scende in strada, cosa accade? Se non rimane chiuso nel suo studio, quando le sue opere escono dal perimetro di un museo o di una galleria, avviene qualcosa di speciale, qualcosa che possiede effetti e ripercussioni non solo estetici ma anche sociali e politici.
Questo è uno dei (tanti) motivi che hanno spinto Alessandra Pioselli* – critico e docente di Storia dell’arte contemporanea – a scrivere “L’arte nello spazio urbano” che sarà presentato venerdì 4 marzo alle ore 18 presso il Caffè San Marco a Trieste. All’incontro parteciperanno, oltre all’autrice, Elisa Vladilo e Adriana Torregrossa, due artiste presenti nel libro e nella scena artistica contemporanea.
Il libro, corredato da un interessante apparato fotografico, porta come sottotitolo “L’esperienza italiana dal 1968 a oggi” e reca in copertina un’installazione realizzata da Elisa Vladilo, proprio a Trieste nel 2007 sul molo Audace. Torregrossa compare per “Art.2”, l’operazione che nel 1997, a Torino, diede pubblicità alla preghiera di fine Ramadan e riuscì pienamente, sollecitando l’interesse de “La Stampa” e la reazione della Lega.
Quindi abbiamo chiesto direttamente a Pioselli il significato di questo suo saggio sull’arte urbana, la sua importanza nel momento presente e il rapporto con la storia contemporanea.
La copertina con l’intervento di Elisa Vladilo a Trieste è una pura scelta editoriale oppure ha un significato? Il progetto di Elisa Vladilo è un esempio interessante di intervento per uno spazio pubblico: una pausa di sospensione giocosa che ha invitato le persone a rilassarsi, poiché su un morbido tappeto azzurro ci si può anche sdraiare. Il progetto si fondava sul valore comunicativo del colore e sulla valenza tattile, perché l’intervento era fatto di materiali soft. Il tatto è un senso solitamente negato nello spazio urbano. L’intervento portava le persone a relazionarsi in modo immediato, senza filtri. Le immagini di “My favourite place” mantengono questa dimensione comunicativa. In questo senso, è anche una scelta editoriale.
Perché il punto di inizio scelto per la sua indagine è il 1968? Il 1968 è un anno simbolico. Attorno vi si concentrano anche in Italia numerose operazioni di artisti, happening, mostre o azioni in “piazza”, per ovvie ragioni storiche, assieme all’emergere della discussione attorno alla partecipazione, al ruolo sociale dell’arte, al rapporto tra estetica e militanza politica che permea ogni ambito creativo. Si pongono sul tavolo temi di peso, dalla critica all’idea stessa di partecipazione nel momento della sua esplosione, che offre spunti ancora interessanti. La storia, però, si può iniziare prima, come il ‘68 inizia prima del fatidico anno. Si può andare a ritroso nella Storia.
Invece, parlando di presente: siamo vicini alle elezioni amministrative. Come vede l’inserimento di un artista in un team elettorale? È mai accaduto? Non credo. Non so neppure se gioverebbe all’artista, in quanto tale, fare parte di una squadra politica. La pubblica amministrazione deve pensare al governo del bene pubblico. Per questo motivo, essa può essere un interlocutore dell’artista, cui però l’indipendenza fa bene. Il problema è che spesso la politica agisce in senso settoriale: a ogni assessorato le sue competenze, ma la pratica artistica può essere quel territorio “infra” che permette di connettere le politiche. Potrebbe essere sfruttata come strumento di congiuntura non convenzionale tra le politiche della cultura, della riqualificazione urbana, del sociale e dell’educazione. Spesso, invece, l’arte è competenza esclusiva degli assessorati alla Cultura, che la concepiscono in termini più tradizionali, generalmente parlando.
Ma allora cosa può fare l’artista nella dimensione collettiva? Non c’è una risposta semplice. Bisogna chiarire che l’artista non è un assistente sociale e che l’arte non può supplire alla mancanza di altre politiche pubbliche. È un ruolo culturale di creazione di immaginari, potenzialmente trasformativi dell’esistenza individuale e collettiva. Qui sta il valore sociale dell’azione culturale. È vano cercare risultati immediati, diretti, contabilizzabili. Bisogna avere fiducia nel processo lento, nella sua estensione temporale. Credo che la pratica artistica sia capace di micro azioni, un costante lavorio senza proclami, ma capace di accendere qualcosa che chiama in causa l’impegno degli altri, attraverso il corpo, l’immaginario, il pensiero.
E la collettività come risponde a questi stimoli? Il panorama dell’arte è articolato e, al contempo, non esiste un’opinione pubblica coesa e compatta: gli incontri e gli esiti sono variabili. Le opinioni pubbliche possono mutare nel tempo. Un’opera rifiutata può, in futuro, scatenare affezione. Le cose cambiano a seconda dell’investimento simbolico e affettivo, e del mutamento sociale. Nulla è immobile. L’artista, però, ha una responsabilità, perché assieme al curatore e al critico deve mediare tra gli attori coinvolti. Sono relazioni dialogiche ma il dialogo è dialettica, non pacificazione forzata, a tutti i costi.
Com’è la situazione italiana rispetto al resto d’Europa? L’Italia non ha avuto, a differenza del mondo anglosassone o di altri paesi, i cosiddetti programmi d’arte pubblica. Il problema dell’Italia, però, sta a monte. È nella disattenzione, interessata, al territorio come bene pubblico. Il tema della città è disatteso a livello di Governo. La sinistra lo ha abbandonato negli anni ottanta. Le amministrazioni locali se ne occupano in modo variabile. A livello politico e mediatico, si parla di spazio pubblico e urbano principalmente nei termini di ordine pubblico e di divieto. Mi sembra che non ci sia grande consapevolezza, da parte dell’opinione pubblica, dell’importanza di non lasciare che lo spazio pubblico soccomba. Ecco, la ricerca artistica su questo può intervenire, sensibilizzare. L’attenzione verso la cosiddetta “arte pubblica” – uso l’etichetta di comodo – non può disgiungersi dall’attenzione verso i temi territoriali. Se governi, media, istituzioni, amministrazioni non considerano i nessi, significa che l’arte viene considerata un decoro, un giochino o una coperta per nascondere problemi non risolti.
E così è nata l’idea di questo libro… con ben 90 pagine sul periodo tra ’68 e ’79… È una scelta dovuta a diverse ragioni. Innanzi tutto, il libro ha origine da una mostra, “Fuori! Arte e spazio urbano 1967-1976”, curata dalla sottoscritta e da Silvia Bignami al Museo del Novecento nel 2011. Con il libro, mi interessava sia fare il punto su un momento cruciale per i temi (e problemi) della “partecipazione” e della “crisi della città” in Italia, ovvero gli anni sessanta - settanta, sia portare allo scoperto anche esperienze meno conosciute e meno storicizzate di quei decenni. Per questo, la concentrazione su quel lasso di tempo, che prende in esame anche il passaggio del 1978-79. Ma gli anni ’90 sono altrettanto significativi c’è: ci sono generazioni di artisti (e critici) in Italia molto sensibili, attenti, che vivono sulla pelle un cambiamento socio-politico importante. Sono gli anni in cui si afferma la Lega Nord, Berlusconi, in cui cresce l’immigrazione diventando una questione politica. Queste generazioni si interrogano sul proprio ruolo, si pongono in discussione, vogliono calarsi nella realtà, lavorare con gli altri. Sono state fatte opere e operazioni molto forti, che hanno aperto un varco per le successive generazioni. La dimensione relazionale dell’arte italiana di quel periodo ha una valenza affettiva, soggettiva, a volte intima, che è un’altra piega peculiare.
E cosa accade dopo?Ho scelto di non analizzare nel dettaglio la scena da circa il 2000 in avanti ma di concludere con un discorso più generale e critico sulla partecipazione e su alcune linee di sviluppo. Gli ultimi quindici anni circa hanno registrato in Italia l’esplosione di interventi artistici che spendono parole come partecipazione, relazione, comunità, collaborazione territoriale. Queste parole fanno parte, inoltre, del lessico politico. Il rischio è anche di adottare format buoni per qualsiasi occasione o di pensare alla partecipazione in senso strumentale o secondo logiche di marketing. La scena è complessa, gremita di situazioni, fin troppo. Inoltre, gli strumenti della critica d’arte hanno dei limiti. I casi andrebbero letti anche con strumenti sociologici, di indagine “sul campo”, difficile da compiere e ciò è vero anche per il passato.
Ancora una volta, dunque, la storia aiuta a riflettere sul presente…Il panorama progettuale italiano è qualificato da una particolare attenzione al confronto con il paesaggio storico. Per questo tema, anche a livello politico, gli anni sessanta sono fondamentali. Lo sono anche per la crisi della città italiana, che ho messo programmaticamente in apertura del libro. C’è il substrato storico e c’è la speculazione edilizia, il patto malsano tra politica e affari (anche illeciti), il “blocco edilizio” di cui parla Valentino Parlato sul “Il Manifesto” nel 1970, con le ricadute pesanti sulla (non) gestione del territorio. La pratica artistica che si confronta con lo spazio urbano in Italia fa i conti anche con questo. Ciò che succede nel secondo Dopoguerra è cruciale e riverbera sull’oggi.
Alessandra Pioselli, L’arte nello spazio urbano, Johan & Levi Editore, pp. 220, € 21
*Alessandra Pioselli è critico, curatore d’arte contemporanea e direttore dal 2010 dell’Accademia di Belle Arti G. Carrara di Bergamo. È docente di Storia dell’arte contemporanea presso la stessa accademia e di Arte Pubblica presso il Master in economia e management dell’arte e dei beni culturali del Sole24Ore(Milano). Collabora con la rivista Artforum (New York)
(In apertura, particolare della copertina: Elisa Vladilo, My Favourite Place, 2007)
[Roberto Calogiuri]