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Mar05072024

Last updateLun, 27 Feb 2017 8pm

“L’Italia che ci piace” e note de morbìn. Intervista a Riki Malva in attesa del primo singolo in italiàn.

“L’Italia che ci piace” e note de morbìn. Intervista a Riki Malva in attesa del primo singolo in ita

Trieste - L’aspetto non è dei più rassicuranti. Riki Malva si fa trovare puntualissimo all’appuntamento alla Stella Polare, caffè storico in piazza Sant’Antonio a Trieste, appoggiato al banco dove deve interrompere una ciacolada con il barista e un altro avventore. Mi son bruto  - si embè - cossa xe ti torna in mente mentre stringi la mano al dissacrante poeta di Go ciolto ferie doman, la geniale parodia di Born this Way di Lady Gaga ambientata proprio alla Stella Polare. Fisico da wrestler, indossa una t-shirt blu XL-Size con una scritta che è tutto un programma: deme pase, lasciatemi in pace, sopratitolata da uno sguardo schivo che sulle prime sembra suggerirti iera meio prima.

Riki Malva, al secolo Enrico Marchesi, classe 1970, come le nagane che ama fare protagonisti delle sue canzoni, si nasconde dietro alle apparenze. La partenza è quella di chi vorrebbe nascondersi dietro a un profilo basso: faccio l’operaio, ho finito di studiare presto perché a scuola ero un diavolo, fazo musica per hobby e a mettermi nel show business non ci penso neanche, figuriamoci! a quarantadue ani dèi, digo quarantadue perché son nato in novembre.

Ma l’autore delle parodie in triestino delle canzoni di Madonna e Lady Gaga, delle canzoni sul mitico Pedocìn o sulla “stela triestina” del Morbìn ha molto da raccontare. Sul suo lavoro, sulla sua passione per la musica, sulla sua sorniona insofferenza per chi in giro per il mondo marcia con il passo più lungo della sua gamba e per chi non ci prova neanche - come invece spesso succede a Trieste. In attesa che esca il suo primo singolo in italian, in cui assieme all’inseparabile Theo LaVecia ci farà ridere sui clichè dell’”Italia che ci piace”. Non senza una stoccatina anche ai sognatori di “Trieste libera”, come anticipa lo spot della canzone già cliccatissimo su Youtube.

Com’è nata l’idea del tuo nome?

Riki è facile, di nome faccio Enrico. Quando ho lasciato il mio primo gruppo (“I Scoverciai” n.d.r.) ho dovuto trovarmi un nome, è successo cinque anni fa. Allora mi sono ricordato di quando ero ancora un ragazzino e mio padre mi portava in giro per le osterie, Un malva, la me fa un malva per cortesia era la frase di rito per ordinare. Quel malva mi è rimasto in testa. In più era tanto che in Italia aveva successo un tal…Ricky Martin. Un giorno scattò l’associazione…Oltre a tuto mi son uguale…forse son anca più bel!

Oltre a Ricky Martin c’è l’associazione a un personaggio abbastanza più importante per te. Tuo padre.

In realtà Riki Malva è mio padre. Quando mi calo nel personaggio e faccio quel vocione baritonale parlo e penso come lui. Lui è stato un camionista, ha girato il mondo, a Trieste è un personaggio, si potrebbe fare un libro solo su di lui. Carisma, senso dello humor, Riki Malva ha preso tutto da lui.

Quando hai scoperto la tua vocazione per la musica?

Ah, da subito. Mi verrebbe da dire appena nato, la musica è nella mia vita da sempre. Mia mamma mi raccontava che già a tre anni mi trovava spesso a cantare davanti alla televisione. Avevo orecchio per l’orecchiabile, andavo pazzo per la Carrà. Poi all’idea di fare musica ci sono arrivato tardi. Sai, non avendo studiato musica, non avendo una preparazione… sono un autodidatta al 100%.

Niente band con i compagni di scuola, come nei percorsi canonici dei rocker?

No. Semmai mi affascinava l’idea di fare il cantautore.

Chi ti piaceva?

Umberto Tozzi. Sono un fan di Umberto Tozzi da sempre, fin da bambino. L’ascoltava da ragazzina mia sorella, che ha due anni più di me. Tozzi non è il tipo di cantante alla Battisti, il tipo sofisticato che con i messaggi punta in alto. La sua canzone è leggera, ma non per questo improvvisata. Ha carisma, ma è anche autoironico.

Ma non ti sei fermato a Tozzi, mi sembra.

Poi ho iniziato ad ascoltare altra musica. I generi musicali più diversi. E’ stato merito anche del mio attuale compagno di strada, Matteo.

Theo LaVecia?

Sì, è una presenza molto importante. Lui condivide con me tutto: la passione per la musica, l’interesse per la gente. Theo lo fa di professione, nella vita fa l’operatore al Ser.T, non gli mancano le cose da raccontare. Io invece osservo la gente a tempo perso: ma alla fine posso dire che sotto sotto siamo tutti e due…psicologi. Poi c’è Matteo e la musica: Theo mi ha fatto scoprire il rap, la cultura hip hop, il punk che oggi mi piace tantissimo, è entrato nella mia vita. Forse mi piace da sempre: da ragazzo ascoltavo anche questa musica, ma non stavo a pensarci troppo su. Oggi mi piace approfondire gli ascolti.

Quando hai iniziato a comporre?

Non prestissimo come ho detto. Un giorno per scherzo ho composto una parodia, diciamo tredici anni fa. L’ho registrata e portata in fabbrica per farla sentire ai miei colleghi. Ho visto che la cosa funzionava e sono andato avanti.  E’ stata la svolta verso la musica demenziale.

Come nasce una canzone di Riki Malva?

Dipende da che cosa scrivo. Le parodie sono un discorso a parte. La gente pensa che facciamo prove molto lunghe, e invece non è vero, zero assoluto. Io scrivo le canzoni e poi le propongo ai miei compagni: se il pezzo piace, lo proviamo e assimiliamo nel giro di un’ora. Qualche volta viene in aiuto anche Theo, con un pezzo o un ritornello. L’intesa è immediata. Poi ovviamente la fase di registrazione comporta uno sforzo diverso, lì si lavora molto di più. L’approdo alla Lademoto -pan.duro Records con il disco Kraputnik mi ha portato a far il salto di qualità allontanandomi dalla dimensione artigianale e domestica.

E gli spettacoli?

La gente penserà che quando vado in scena tutto è preparato e provato. Niente di tutto questo. Niente scaletta fissa, niente scenette o battute fisse: quello che deve succedere succede. Dipende anche da come “sento” il pubblico: con Theo, Linda e gli altri muli che suonano con me c’è una tale intesa che basta un cenno o una parola per far capire che pezzo bisogna suonare.

Ma con le canzoni è diverso…

Sicuramente. Lì parto dall’osservazione della realtà, nei suoi aspetti più quotidiani, anche più banali. Prendo un’espressione, un modo di comportarsi, un oggetto e penso se ha la capacità di diventare il soggetto di una storia, l’attore di un percorso narrativo che lo può portare anche lontano dal suo contesto di origine. Spesso così si creano delle situazioni paradossali, che sono quelle più interessanti dal punto di vista comico. Mi piace associare realtà semplici a contesti più seri…che poi è quello che faccio sempre nelle parodie.

Quanto ha influito Internet e la “globalizzazione “ della canzone demenziale in dialetto?

Più che Internet ha influenzato e aiutato la tecnologia. Non avendo nessuna formazione musicale, senza la tecnologia non avrei potuto fare musica. Venti anni fa non sarebbe stato possibile. Oggi con un microfono, un computer una tastiera e dei programmi anche scaricati in rete chiunque voglia fare musica ci può provare. Non è sempre un bene, questo porta un danno a chi la musica la conosce veramente e molte volte subisce una concorrenza ingiusta. Io mi difendo continuando a costruirmi una cultura musicale, qualcosa che mi renda sempre più autonomo nelle scelte che faccio e nel processo creativo.

C’è qualche fenomeno non triestino che ti piace o che ti ha influenzato?

Non direi. Anche se faccio musica demenziale, i miei riferimenti vanno oltre questo genere, ascolto veramente di tutto. Posso ascoltare ora Umberto Tozzi poi, che ne so, i Metallica. Ecco, in questo posso dire di essere figlio di Internet: la rete ti lascia la massima libertà di spaziare fra tutti i tipi di musica, senza limiti di tempo o di genere. Ed è quello che mi piace fare anche come autore: saltare da una parte all’altra, senza lasciarmi condizionare da nessuno.

Nessun condizionamento ideologico?

Nessuno. Neanche demenzialmente parlando. Certo, c’è Elio e Le Storie Tese: geni assoluti, ma non cerco di imitarli.  Anzi…se devo dire chi è l’artista che mi piace di più non vado a cercarlo nella musica.

Sempre più eclettico. Di chi stai parlando?

Di Gigi Proietti. E’ il mio idolo. Una capacità di comunicare con il pubblico unica. E poi mi piace la sua voce, un po’ ci provo a imitarla, inutile nasconderlo.

Altri modelli trovati nell’erba del vicino?

Uno a cui non ho mai chiesto da farmi da maestro. Ma sai, è mio cugino e un grande uomo di teatro a Trieste. Era difficile che non cercassi di rubargli qualche segreto del mestiere, ad esempio per impostare la voce. Maurizio Zacchigna.

Adesso che so che sei così eclettico arrivo a questa domanda un po’ scoraggiata. Che rapporto hai con la tradizione della canzone triestina?

Tutto quello che riguarda la triestinità in generale l’ho sempre apprezzato. Quindi bravi Pilat, Umberto Lupi, Cecchelin fuori dall’ambito musicale. Ma non dipendo da nessuno. Anche perché le mie canzoni, soprattutto le parodie, guardano al mondo contemporaneo e non solo a quello che si vive a Trieste.

Hai poco interesse per la tradizione…

Sì e no. In fondo tutto è destinato a diventare tradizione. Oggi ho successo a Trieste, è probabile che fra vent’anni quello che faccio io adesso diventerà tradizione. Ora mi piace fare da specchio alla vita di oggi, questo momento domani sarà il passato. E’ così.

Fino ad adesso hai composto pezzi in triestino. Questo non ha limitato la tua possibilità di avere più successo?

Ho provato a scrivere in italiano quand’ero molto giovane e mi piaceva l’idea di diventare cantautore. Ne son venute fuori cose tremende, rime tipo cuore, fiore amore…scrivere in triestino è più facile. Il nostro dialetto è pieno di espressioni convenzionali, frasi fatte. E’ divertente poi giocare a mettere insieme questi pezzi

Quanto ai limiti del successo…io e Theo non siamo per niente ambiziosi, non ci piace cercare cose che non siano alla nostra portata. Ma lo stesso il fatto di cantare in triestino è un modo di portare lo spirito di Trieste nel mondo. Noi facciamo questo, Internet il resto. Scrivere in italiano significa non parlare di Trieste.

Però state per uscire con un brano in italiano. Qualche anticipazione?

Si chiamerà “L’Italia che ci piace”. Ci abbiamo messo tutta una serie di cliché che riguardano l’Italia. La pizza, il mandolino, cose così. E’ una prova. La scommessa mia e di Theo è che se in un disco c’è uno o più brani in italiano che magari piacciono fuori di Trieste, forse qualche non triestino ci compra. E ascolta anche il resto.

Che cosa ti piace di Trieste e dei triestini?

Beh, come città mi piace tutto. Non lo dico perché sono nato qui, ma geograficamente è una città favolosa. L’arrivo in Costiera, il mare. Ci sono altre città italiane che mi piacciono: adoro Roma, mi piace tantissimo anche Firenze. Ma Trieste è unica. Dei triestini? Mi piace il nostro spirito, il morbìn, ci ho scritto anche sopra una canzone. La voglia di vivere, vivere bene, star tranquilli. Spesso siamo tacciati di menefreghismo, per molti siamo solo quelli del viva l’A e po’ bon. Ma prendere tutto quanto con allegria è anche una risorsa, significa avere la capacità di guardare oltre gli ostacoli.

Cosa non ti piace invece?

La stessa cosa vista da un’altra prospettiva. Questa mancanza di vera ambizione. La tendenza a fermarsi prima di aver conseguito un obiettivo. La facilità a dire bon, dèi, ‘ndemo avanti. E’ un fatto endemico, molto triestino.

Cosa ti fa ridere dei triestini?

Aaah…(ride) tuto! Quello dei triestini è un mondo comico. Mi fa ridere il modo di parlare, il modo di atteggiarsi. Per non parlare dei personaggi che abbiamo a Trieste. Il triestino è di facile caricatura, perché ha delle caratteristiche riconoscibilissime. Pesa alle vecie nagane triestine, i bulli che vanno in giro per i bareti (“i bar di quartiere” n.d.r.). Sembra che siano brutti e cattivi: poi parli con loro e scopri che tante sono persone buone e semplici, con un mondo di sentimenti da raccontare anche se di fronte agli altri mettono la maschera dei “duri“. E’ bello scoprire quello che va al di là delle apparenze.

Nelle tue canzoni c’è molto dello spirito di frontiera, o meglio di una città che messa ai margini esprime una sua visione del mondo controcorrente, no?

Fa parte del gioco della parodia. In realtà il messaggio che voglio far passare è di apertura al mondo. Un po’ come accade nelle battute iniziali del video “Pedocìn”, dove una tipica nagana apostrofa un messicano che non sa pronunciare bene delle parole in dialetto: lì metto in evidenza i limiti del triestino per invitare tutti a superarli. Anzi, autorappresentandomi come triestino tipico e ironizzando sui suoi stereotipi, dò la prova che sono già oltre a quei limiti.

Il triestino è apparentemente chiuso, ma la sua storia e la sua collocazione geografica sul confine lo porta giocoforza ad essere aperto alla convivenza con realtà diverse. Molto spesso noi triestini siamo rappresentati solo negli aspetti di facciata.

Nelle parodie parti da Trieste per puntare il dito sugli aspetti divertenti dello show-business globale. Musica pop e cinema, non risparmi nessuno…

Io non ce l’ho con i singoli artisti, prova ne sia che non farei un’altra parodia di una canzone, che ne so, di Madonna o Lady Gaga. Certo che mi colpisce il fatto che la gente prenda le icone del pop così sul serio: in fondo gli idoli di adesso non portano avanti messaggi di valenza rivoluzionaria come avveniva quaranta-cinquanta anni fa. Oggi è tutto più de-ideologizzato, tutto più leggero. Il fanatismo nei confronti dello star-system fa perdere il senso di quello che realmente fanno gli artisti di oggi: intrattenimento, e basta. Facendo la parodia di Shakira o Fabri Fibra cerco di riportarli tutti a una dimensione più umana.

E’la stessa cosa che hai fatto con il film “Il Migliore” …

Qui c’entro poco. E’ stato il riconoscimento che ho voluto dare a Leo dei “Robe fate cacao” che da anni producono i miei video, fin da quando suonavo con “I Scoverciai”. Leo adora i B movies e da anni cullava il sogno di fare un cortometraggio per ridere sopra i peggiori film d’azione degli anni ’80, quelle robe becere in cui si mescolano scariche di pugni e pallottole a dialoghi impressionanti, in cui i personaggi si prendono troppo sul serio. Io lì recito la parte di un tale che si chiama “Nessuno”.

Come Ulisse con Polifemo. Riki Malva sta gettando la maschera. Altro che puro divertimento all’insegna del morbìn. Vuoi andare oltre?

Insomma, mi diverto a far divertire la gente. Ma ridere deve essere l’occasione per riflettere.

Meglio su Internet o sul palco?

Negli spettacoli dal vivo, non c’è confronto. Hai voglia a contare i “like” quando sei sul palco. Lì lo vieni a sapere veramente se vali qualcosa: quando conti le visite ad un video non sai mai a quanti è piaciuto veramente. Ai miei spettacoli viene gente di tutte le età, soprattutto ragazzi – ma anche gente più matura. Che siano 2000 come allo show a Barcola l’anno scorso o 70 persone come quindici giorni fa a Muggia poco importa: chi viene a sentirmi ha voglia di ridere e divertirsi e questo per me è contagioso, mi spinge sempre a dare il meglio come se fosse lo spettacolo della mia vita.

Nudi alla meta, una filosofia di vita. Dalla Costa dei Barbari ai Filtri l'eden dei naturisti

Nudi alla meta, una filosofia di vita. Dalla Costa dei Barbari ai Filtri l'eden dei naturisti

Trieste - È difficile trovare qualcosa che accomuni di più i triestini. Le “due orete al bagno” costituiscono da sempre un rito irrinunciabile per gli abitanti del capoluogo giuliano: in spiaggia libera o in uno stabilimento. In compagnia di tutti o nell’isolamento sessista del celeberrimo “Pedocin” in cui il sole si prende lontano dagli sguardi indiscreti dei bagnanti dell’altro sesso. O ancora sui marciapiedi del lungomare di Barcola incuranti dello sconcerto che ancora oggi la loro libertà di …costume suscita in tantissimi turisti.

L'amore dei triestini per la vita all’aria aperta va a braccetto con la loro nota insofferenza alle costrizioni e alla facilità con cui si sottraggono alle convenzioni anche più consolidate. Così non bisogna meravigliarsi che fin dagli inizi del Novecento, complice la condivisione della cultura mitteleuropea, gli abitanti del capoluogo abbiano sposato anche la causa del Naturismo, una filosofia di vita nata in Germania ma diffusa anche in Francia e in Inghilterra come reazione delle limitazioni alle libertà individuale imposte dalla società industriale.

Allora come oggi l’imperativo era quello di sottrarsi alla routine quotidiana con un salutare ritorno alla natura: vivendo il più possibile all’aperto, prendendo il sole, facendo il bagno in mare o nei fiumi per fondersi con la natura e tornare in equilibrio con essa nel rispetto della dignità umana.

Coerente alla filosofia della difesa della salute fisica e mentale che sta alla base dell’idea naturista è la pratica del nudismo, che si è affermata nel litorale di Trieste soprattutto a partire dalla fine degli anni ’60, non a caso in coincidenza con il grande moto di liberazione giovanile e non solo.

E sono sempre di più i triestini che scelgono di andare al mare nei posti in cui si può – anzi si deve! – stare senza costume. Stare nudi è la via ritorno all'eden, in cui ci si sveste degli abiti che segnano le differenze sociali, economiche e culturali per tenersi solo la civiltà che unisce: libri, musica, un mazzo di carte al massimo e molte parole da scambiare per condividere il piacere di stare assieme senza recar disturbo agli altri.

Niente canali ufficiali, ci si arriva con il passaparola: a Trieste le spiagge naturiste sono spiagge libere occupate da una quarantina d’anni da pacifici bagnanti senza costume ma anche senza la tutela di una legge regionale o nazionale che garantisca loro il diritto a tutti gli effetti di bagnarsi e prendere il sole nell'abito di Adamo.

“Una legge nazionale che regoli la pratica del Naturismo si fa ancora attendere” dice il presidente dell’Associazione Naturista Umanista Liburnia (affiliata alla Fe. Na. It. Federazione Naturista Italiana) Andrea Turco: “dal 2004 al 2009 sono stati depositati in Parlamento tre disegni di legge bipartisan, dal leader dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio, da Piergiorgio Massida di Forza Italia e da ultimo dal presidente onorario dell’Arcigay Franco Grillini come esponente del PD. Ma tutto si è fermato appena uscito dalle commissioni, per cedere il passo ad altre priorità”.

Il fatto è che il naturismo, nella pratica, è tollerato a Trieste come in molte altre zone d’Italia, alcune delle quali sono aree tutelate da legge regionale (come in  Piemonte) altre concesse per la pratica del naturismo (come a Capocotta presso il Lido di Ostia).

Altrove, l'attuale stato di cose in realtà consente di frequentare le spiagge naturiste triestine in grande libertà, senza l’obbligo di essere tesserati ad un’associazione – cosa che è invece obbligatoria nel resto d’Europa dove esiste una legislazione sul Naturismo. Con l’assenso, di fatto, da parte dello Stato: “In assenza di un quadro normativo ci sono due sentenze della Cassazione emesse nel 2000 che riconoscono il diritto alla pratica del naturismo in tutte le località in cui esiste una consolidata tradizione" continua Turco.

“Noi a Trieste tuteliamo le spiagge naturiste con la presenza dell’associazione Liburnia nel tratto dalla “Costa dei Barbari” fino alla spiaggia dei “Filtri” non lontano dal porticciolo di Santa Croce. Per un periodo abbiamo avuto in concessione dal demanio delle Ferrovie dello Stato il tratto di spiaggia sotto la cosiddetta “galleria naturale”: ma nel passaggio all’immobiliare Metropolis (che gestisce il demanio delle ex Ferrovie dello Stato, n.d.r.) l’affitto, che ancorché simbolico era per noi già abbastanza oneroso, è praticamente sestuplicato e noi che ci sostentiamo solo con il tesseramento abbiamo dovuto rinunciare alla concessione.

Poi ci sono stati dei segnali molto positivi nella direzione di una concessione da parte del comune di Duino-Aurisina con i sindaci Vocci e Ret, oggi siamo in contatto con la stessa amministrazione per la concessione della spiaggia con accesso da Portopiccolo, una volta che saranno finiti i lavori per la messa in sicurezza.

Ed ora? “Ci occupiamo da volontari della manutenzione della spiaggia, dalla pulizia all’agibilità, e naturalmente facciamo proselitismo invogliando la gente a frequentare le spiagge naturiste, i cui frequentatori hanno un grande rispetto per l'ambiente, amano la tranquillità e i passatempi che non recano disturbo agli altri, come la conversazione pacata o la lettura. A nessuno viene in mente di fare chiasso o di imporre agli altri la musica del proprio registratore”.

I risultati di tanta dedizione si apprezzano anche solo stando un paio d'ore su una delle tre spiagge triestine dedicate al naturismo: ogni fine settimana arrivano bagnanti non solo dalla città, ma anche da tutto il Friuli e anche da più lontano, da Trento o Venezia, per tacere dei turisti stranieri in transito verso la Croazia, la vera mecca del nudismo. Nel week end si arrivano a contare fino a 500 presenze al giorno.

Età media 40 anni, pochi i giovanissimi che preferiscono ancora le spiagge per i "tessili", più frequenti le famiglie con bambini piccoli. Tra i naturisti troviamo persone dei livelli economici e di studio fra i più diversi, tra i single c'è una leggera dominanza dei maschi "ma l'alto tasso di tranquillità e di buona educazione convince sempre di più le donne sole a venire a prendere il sole qui da noi" aggiunge Turco.

Nessun problema? "No, anzi. È lontana la leggendaria estate del '75, quando noi naturisti venivamo caricati dalle forze dell'ordine per terra, da mare e tra poco anche dal cielo. Oggi sono le prime a darci una mano quando serve, ad esempio in caso di malore di qualche bagnante - come è purtroppo successo ad alcuni nostri tesserati negli ultimi anni."  

Fra tanta carne al sole si aggirerà anche qualche malintenzionato, no? "Capita molto raramente" risponde Turco " proprio il fatto di trovarsi in una condizione naturale ma non usuale induce tutti ad avere più rispetto per gli altri. Al contrario di quello che si potrebbe pensare, i naturisti sono molto pudichi e molto casti quando condividono la nudità. E se arriva qualche curioso un po' troppo invadente, ci pensa la comunità di spiaggia a dissuaderlo o ad allontanarsi; al mare ci si conosce tutti, è facile individuare chi non è venuto a spogliarsi per il semplice bisogno di pace e tranquillità". 

Maniaghese, non basta il vento a pulire l’aria

Maniaghese, non basta il vento a pulire l’aria

Pordenone - Provincia di Pordenone, distretto nord. Per arrivarci si percorre una strada statale dritta e veloce, dove sfrecciano le auto fra campi e coltivazioni. Un nastro di asfalto:  ventisette chilometri dal capoluogo fino alla pedemontana. Una piccola distanza anche per il vento, o meglio, per ciò che porta il vento. Il territorio maniaghese è conosciuto ovunque per le sue eccellenze: dalla storica industria delle lame e dei coltelli alla bellezza della natura. E’meno noto, invece, per le emergenze ambientali, le preoccupazioni dei cittadini contro l’inquinamento delle industrie o per la lotta quotidiana della gente contro i fumi, gli odori nauseabondi, i fanghi sui campi.

Infatti, a ridosso dei monti, tra la vegetazione rigogliosa e i filari ordinati, si apre un vasto insediamento industriale che sembra dormire pacifico sotto quella corona di monti protetta dai venti. Maniago, Fanna, Arba, Vajont, Cavasso Nuovo sono solo alcuni dei comuni coinvolti da anni in un dibattito  ambientale sostenuto dagli stessi abitanti che denunciano insieme ad alcuni comitati, una ferita profonda del territorio. 

Sotto processo, alcuni insediamenti industriali del luogo potenzialmente rischiosi che, pur portando la tanto attesa occupazione, aprono interrogativi sulla qualità dei benefici. Un dibattito che spesso ha assunto i connotati di una vera e propria battaglia ambientalista alle porte di Pordenone.  In prima linea, i Comitati per l’ambiente, portavoci della teoria secondo la quale il maniaghese è ormai “territorio di conquista” per le attività industriali insalubri.

A preoccupare, alcune aziende per il trattamento dei rifiuti,  a causa  delle emissioni di fumi spesso maleodoranti. Alcune di esse, sono addirittura a un passo dal sito protetto SIC magredi del Cellina e all’interno dell’IBA (International Bird Area). Poco lontano, nella frazione di Campagna, un’altra zona da tempo nell’occhio del ciclone per la protesta ambientale, i residenti segnalano tracce ben avvertibili di altre anomalie: odori maleodoranti, strane polveri depositate sulle foglie, fumi densi e puzzolenti, liquami industriali sparsi nei campi. Si parla molto dei rischi, veri o presunti, correlati a certe aziende come fonderie e cementifici.

Ad esempio, nel comune di Fanna, la vicenda parte da lontano, da quando l’amministrazione rilasciò la licenza per la costruzione di una cementeria che allora - si dice secondo le notizie che vennero fatte circolare - fu passata per la nascita  di una azienda agricola, per l’esattezza,  di una fabbrica di confetture. E non senza ragione. Fanna infatti, è nota da sempre per il suo territorio adatto alla coltivazione delle mele. 

L’azienda si costituì il 9 settembre 1969 individuando la sua cava nella zona del monte San Lorenzo. Allora come oggi, un impianto di produzione di cemento faceva paura a tutti.  Le emissioni di inquinanti danno pensiero anche a chi non è avvezzo alle battaglie ambientaliste.  Le portate di un cementificio sono molto più elevate di quelle di un inceneritore che, non a caso, è classificato come industria insalubre di prima classe. Nel tempo, le preoccupazioni degli abitanti sono aumentate quando il cementificio è intervenuto con un progetto rivolto al recupero di energia proveniente dai rifiuti al posto del carbon coke.

E’ancora vivo tra la popolazione il ricordo della polemica legata alla diossina, ritrovata in concentrazioni elevate rispetto al consentito in un pollo del quale si disse - dopo alcuni controlli - che fosse stato vittima non dei veleni, ma di un’indigestione di leccornie avanzate da un barbecue. I livelli di diossina in provincia di Pordenone, da studio INEMAR Arpa del 2007, per il 70 % circa arrivano dalla zona industriale di Maniago.  Il dibattito  poi, si accende quando si parla del famoso asilo all’interno del Nip ( Nucleo Industrializzato Provincia di Pordenone) di Maniago che ospita  una sessantina di stabilimenti, alcuni dei quali operanti nel settore chimico e sei fonderie.

A pochi metri di distanza, sorge la più grande discarica per rifiuti attiva in Friuli Venezia Giulia. In mezzo, tra altalene e scivoli, decine di bambini, ma anche famiglie con le loro abitazioni.  Il tempo passa ma il vento, oggi, non è sufficiente a fare pulizia. Gli abitanti chiedono uno studio epidemiologico che verifichi i timori rispetto all’aumento di gravi patologie, oltre a un biomonitoraggio sulle matrici viventi e il latte materno. Per garantire la salute dei cittadini e perché il vento torni a portare l’odore di montagna.   

Paola Dalle Molle

 

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