Anime nere per spettatori in cerca di risposte
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- Pubblicato Lunedì, 22 Settembre 2014 20:58
- Scritto da Roberto Calogiuri
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Trieste – Girato negli stessi luoghi che racconta, e recitato nel dialetto di quei luoghi, “Anime nere” è un film che non concede sconti al sentimento né risparmia la durezza aspra e primitiva della Calabria, delle sue radici arcaiche e della sua criminalità organizzata.
Sebbene non si contino i grandi film sulla mafia, “Anime nere” – ispirato al romanzo di Gioacchino Criaco - ha uno spessore sottile eppure tagliente e tanto penetrante da renderlo una narrazione di grande energia: scarna ed elementare come le emozioni che racconta. Lenta e ritmata come il tempo dei pastori in Aspromonte. Sanguinaria, estrema e senza ritorno come dev’essere ogni grande tragedia.
Assieme alla regìa (Francesco Munzi) che illumina (tra i tanti meriti) un eccellente e profondo spaccato antropologico e sociale, domina una fotografia (Vladan Radovic, lo stesso di “Smetto quando voglio”) che completa e corona l’atmosfera di aridità pietrosa e desolata che avvolge quasi ogni scena.
Un plauso anche al casting (Icaro Lorenzoni e Stefania De Santis) se non altro perché, fin dall’inizio, già soltanto i volti duri e scolpiti degli attori si muovono sulla scena come maschere tragiche e annunciano un dramma imminente e pauroso e lo fanno in una lingua che l’orecchio non è abituato a sentire e che, forse, i sottotitoli privano dell’alone arcano e impenetrabile del mistero che stanno rappresentando.
Un mistero e un dramma che colgono lo spettatore alla sprovvista per due volte. E per due volte lo obbligano a interrogarsi sul perché della presenza di tanto grande male tra gli uomini. E così, anche uno sperduto angolo di mondo come la montagna calabrese diviene il teatro di un dramma più ampio in cui la donna, l’amore e la religione hanno soltanto un ruolo accessorio e marginale.
Perché la ‘ndrangheta, qui, altro non sembra se non una rappresentazione del male da cui non c’è riparo, quasi un codice genetico negativo che si annoda attorno alle vite di tre fratelli e le avviluppa in un intrico che niente riesce a sciogliere. Un labirinto inevitabile in cui la normalità diviene incapacità di adattamento. In cui la dissoluzione rimane l'unico plausibile punto d’arrivo di una sciagura totale che nasce da un banale puntiglio.
Contrariamente alle rappresentazioni dei calabresi date dalla letteratura novecentesca, il merito di questo film è di spostare l’attenzione su una terra ancora misteriosa e impenetrabile tentando, a modo suo, di dare una risposta lirica a qualcosa che risposta non ha, vale a dire l’inclinazione indecifrabile dell’uomo verso il potere e la morte.
Eppure la vicenda è articolata in modo tale che la fine, terribile e inattesa, riapre la discussione e rilancia l’interrogativo sull’indole dell’uomo e il dubbio sulla sua capacità di comprendere il mistero della vita. Da vedere.
[Roberto Calogiuri]
Concluso “I Mille Occhi”- Festival Internazionale del Cinema e delle Arti: il punto di vista di uno spettatore
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- Categoria: Cinema
- Pubblicato Venerdì, 19 Settembre 2014 00:06
- Scritto da simonetta colonna
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Si è conclusa la XIII edizione del festival “I Mille occhi”, festival Internazionale del Cinema e delle Arti, che si è tenuto a Trieste dal 12 al 16 settembre presso il teatro Miela ed era la prima volta che mi capitava di assorbirne il sapore nella sua interezza, tanti i film proposti, manifesto di qualità e ricerca cinematografica.
Un ricchissimo programma suddiviso in nove sezioni tematiche, diverse, ma tutte legate da un filo conduttore unico: I misteri dell’organismo.
Molti i registi italiani d’eccellenza come Michelangelo Antonioni, Raffaello Matarazzo, Roberto Rossellini, Luca Comerio, Vittorio Cottafavi, Sergio Corbucci e altri ancora.
Uno su tutti mi ha colpito I lupi dentro, che narra per immagini la realtà di un gruppo di persone emarginate che visse randagio sulle rive del Po. Matti e artisti al contempo tra i quali Andreassi individua Ligabue, famoso pittore naïfs, sul quale poi realizzerà due documentari.
Ogni singolo filmato è il tangibile risultato di una felice combinazione tra profonda cultura cinematografica, passione per la ricerca e cura meticolosa della storia cinematografica, intesa come documento artistico e culturale, quale specchio di una società in continuo divenire.
Assistere ai festival I 1000 occhi è appassionante e non meno interessante. Tutto, ogni volta, è scoperta. Film, che per la maggior parte son stati realizzati nei primi sessant'anni del secolo scorso, rivelano un'idea di rappresentazione molto diversa da quella attuale.
Colpisce l'uso della telecamera, sostanzialmente fissa sui protagonisti, ad enfatizzare la drammaticità dei rapporti umani, i dialoghi, dai quali emerge un eloquio curato, conflittuale con la realtà spesso povera e sub cultural, i costumi, puliti e curati anche nelle situazioni più disagiate.
Tutti elementi indispensabili per affermare con forza quel che è giusto, pulito, corretto, da quello che non lo è. Il bello e il brutto, il giusto e l'ingiusto, il bianco e il nero. Senza sfumature, senza incertezze. Virile, intero. Comme il faut. Unica eccezione, la commedia italiana e in particolare Il giorno più corto di Corbucci (1963) che è proprio la spassosa caricatura dei classici cliché sociali.
Emozioni autentiche, invece, arrivano violente dai filmati dei primi anni del Novecento. In particolare quelli che mettono lo spettatore nelle trincee, in prima linea, nel mezzo dell'assurdità della guerra. La prima guerra mondiale, già presente nelle scorse edizioni, quest'anno, in occasione del centenario, occupa un'intera sezione del Festival con i documenti straordinari di Luca Comerio e i film ambientati in quel periodo. Pellicole restaurate e altre da restaurare di assoluto interesse.
Cinque giornate dentro il teatro Miela, in un tempo altro, sulla linea di confine tra il vedere e il considerare, tra lo stupore di oggi e la tenerezza per l'ingenuità di ieri, hanno lasciato nel pubblico un sentimento di riconoscenza per chi, nonostante ogni difficoltà, continua a voler raccontare la storia per immagini. Quella storia che ha senso solo attraverso la partecipazione emotiva collettiva e che il cinema ha il pregio di rendere infinita. Siamo già in attesa della XIV edizione.
Vince il regista algerino Tariq Teguia con il film “Thwara Zanj “
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- Pubblicato Giovedì, 18 Settembre 2014 07:55
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Trieste - Si è svolta martedì la serata finale della tredicesima edizione di I MILLE OCCHI Festival Internazionale del Cinema e delle Arti Il Premio Anno uno consegnato al regista algerino Tariq Teguia per il suo Thwara Zanj
Si è concluso al Teatro Miela di Trieste la XIII edizione di I Mille occhi – Festival Internazionale del Cinema e delle Arti.
Il Premio Anno uno è andato quest'anno al regista algerino Tariq Teguia per il suo ultimo lungometraggio Thwara Zanj (Zanj Revolution),film che riconosce nella storia del mondo arabo una culla delle rivoluzioni a venire, ibridando fiction, documentario e ricognizione storica.
I Mille occhi si chiudono con l'intenso incontro che ha visto protagonisti il Premio Anno uno Tariq Teguia e il numeroso e appassionato pubblico di martedì sera.
Il direttore Sergio M. Germani, sottolineando come ci sia nella volontà del festival il desiderio di evidenziare accostamenti tra film del passato e il cinema di oggi, ha citato la vicinanza tra il premiato Thwara Zanj e AQuestion of People di Rossellini, come due film capaci di intrecciarsi liberamente a distanza di tempo dando entrambi la sensazione di come “la storia sia un luogo di direzioni assolutamente impreviste”.
A questo riguardo Teguia ha ricordato come in Italia i suoi film siano stati da subito particolarmente apprezzati.
“Sicuramente nel mio cinema una fonte di ispirazione sono i grandi registi italiani, come Rossellini e il cinema degli spazi di Antonioni” ha dichiarato “La verità è che le culture sono diverse, ma il cinema le può unire tutte”.
Dopo Trieste il regista proseguirà il suo tour di presentazione del film in altre città italiane, tra cui Milano, Torino e Roma. “Abbiamo pensato di provare a scardinare le regole del gioco cinematografico e di attraversare il paese con un film che racconti le rivolte che negli ultimi anni sono esplose in quasi tutti i paesi che si affacciano sul mediterraneo” affermano Fulvio Baglivi e Donatello Fumarola “non è quindi una 'distribuzione' di Zanj Revolution ma un modo di rilanciare il cinema, di farlo viaggiare e di portarlo in luoghi che vogliono accoglierlo nella sua scomodità provocatoria, pronti a farlo deflagrare”.
Baglivi ha inoltre definito I Mille occhi come il festival più autoriale in Italia, grazie al suo direttore Germani, a suo parere uno dei maggiori esperti europei e tra i grandi conoscitori, appassionati e visionari del cinema. “Sono contento di vedere sempre più persone attratte dal festival, penso sia un'ottima cosa soprattutto per Trieste e significa che la città ha coscienza di quanto di positivo e importante avviene qui” ha concluso.
A precedere la visione del film vincitore è stato proiettato un breve estratto del film Belluscone. Una storia siciliana, regalato ai Mille occhi dal regista Franco Maresco, a conferma di come il festival, con il suo dialogo continuo tra cineasti, autori e intellettuali, presenze fisiche e non, in campo e fuori campo, rafforzi sempre più lo scambio tra pubblico e artisti, nella consapevolezza dell'essenzialità del cinema nella nostra epoca.
La serata è stata anche l'occasione per trarre un bilancio di questa edizione del festival. Il direttore Germani ha ringraziato le Istituzioni, i partners, gli sponsor e tutti i collaboratori che hanno reso possibile la realizzazione della manifestazione e si è detto soddisfatto di come I Mille occhi si confermi un evento lontano dai canoni delle kermesse più tradizionali, proponendo una formula personale e inedita di festival cinematografico animata dalla ricerca dell'essenza più autentica del cinema. L'edizione 2014 ha rappresentato un nuovo viaggio tra cinema del presente e del passato, attraverso anteprime assolute ed esclusive, ritrovamenti eccezionali e incontri con autori, emergenti o da riscoprire, tenendo sempre una finestra aperta sul rapporto tra il cinema e le altre arti.
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