• Home
  • Attualità
  • Cronaca
  • Spettacoli
  • Cultura
  • Benessere
  • Magazine
  • Video
  • EN_blog

Ven09202024

Last updateLun, 27 Feb 2017 8pm

Anime nere per spettatori in cerca di risposte

Anime nere per spettatori in cerca di risposte

Trieste – Girato negli stessi luoghi che racconta, e recitato nel dialetto di quei luoghi, “Anime nere” è un film che non concede sconti al sentimento né risparmia la durezza aspra e primitiva della Calabria, delle sue radici arcaiche e della sua criminalità organizzata.

Sebbene non si contino i grandi film sulla mafia, “Anime nere” – ispirato al romanzo di Gioacchino Criaco -  ha uno spessore sottile eppure tagliente e tanto penetrante da renderlo una narrazione di grande energia: scarna ed elementare come le emozioni che racconta. Lenta e ritmata come il tempo dei pastori in Aspromonte. Sanguinaria, estrema e senza ritorno come dev’essere ogni grande tragedia.

Assieme alla regìa (Francesco Munzi) che illumina (tra i tanti meriti) un eccellente e profondo spaccato antropologico e sociale, domina una fotografia (Vladan Radovic, lo stesso di “Smetto quando voglio”) che completa e corona l’atmosfera di aridità pietrosa e desolata che avvolge quasi ogni scena.

Un plauso anche al casting (Icaro Lorenzoni e Stefania De Santis) se non altro perché, fin dall’inizio, già soltanto i volti duri e scolpiti degli attori si muovono sulla scena come maschere tragiche e annunciano un dramma imminente e pauroso e lo fanno in una lingua che l’orecchio non è abituato a sentire e che, forse, i sottotitoli privano dell’alone arcano e impenetrabile del mistero che stanno rappresentando.

Un mistero e un dramma che colgono lo spettatore alla sprovvista per due volte. E per due volte lo obbligano a interrogarsi sul perché della presenza di tanto grande male tra gli uomini. E così, anche uno sperduto angolo di mondo come la montagna calabrese diviene il teatro di un dramma più ampio in cui la donna, l’amore e la religione hanno soltanto un ruolo accessorio e marginale.

Perché la ‘ndrangheta, qui, altro non sembra se non una rappresentazione del male da cui non c’è riparo, quasi un codice genetico negativo che si annoda attorno alle vite di tre fratelli e le avviluppa in un intrico che niente riesce a sciogliere. Un labirinto inevitabile in cui la normalità diviene incapacità di adattamento. In cui la dissoluzione rimane l'unico plausibile punto d’arrivo di una sciagura totale che nasce da un banale puntiglio.

Contrariamente alle rappresentazioni dei calabresi date dalla letteratura novecentesca, il merito di questo film è di spostare l’attenzione su una terra ancora misteriosa e impenetrabile tentando, a modo suo, di dare una risposta lirica a qualcosa che risposta non ha, vale a dire l’inclinazione indecifrabile dell’uomo verso il potere e la morte.

Eppure la vicenda è articolata in modo tale che la fine, terribile e inattesa, riapre la discussione e rilancia l’interrogativo sull’indole dell’uomo e il dubbio sulla sua capacità di comprendere il mistero della vita. Da vedere.

[Roberto Calogiuri]

Chi siamo

Direttore: Maurizio Pertegato
Capo redattore: Tiziana Melloni
Redazione di Trieste: Serenella Dorigo
Redazione di Udine: Fabiana Dallavalle

Pubblicità

Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 

Privacy e cookies

Privacy policy e cookies

Questo sito è impostato per consentire l'utilizzo di tutti i cookie al fine di garantire una migliore navigazione. Se si continua a navigare si acconsente automaticamente all'utilizzo. Per comprendere altro sui cookie e scoprire come cancellarli clicca qui.

Accetto i cookie da questo sito.