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Last updateLun, 27 Feb 2017 8pm

Esordio della Cuscunà per "Resistenze Femminili" al Miela. Breve intervista a Marta Cuscunà

Esordio della Cuscunà per

Trieste -  Al via mercoledì 13 aprile al teatro Miela  la rassegna  Resistenze femminili,  quattro appuntamenti, uno spettacolo teatrale e uno musicale, due documentari, tutti scritti e interpretati dalle donne,  che raccontano alcune storie di donne che lottano o hanno lottato per la loro libertà.  Inserita in Primavera di donne 2016,  il programma di eventi organizzati dalla Provincia di Trieste, in occasione della giornata Internazionale della Donna,  la rassegna Resistenze femminili vuole essere la prima tappa di un interessante percorso culturale che Bonawentura/ Teatro Miela proporrà al pubblico anche nella prossima stagione, seguendo il filo dell'emancipazione femminile e dei diversi significati del resistere nella società contemporanea.

Ancora una volta Marta Cuscunà fa centro con il suo nuovo spettacolo “Sorry, Boys – Dialoghi su un patto segreto per 12 teste mozze”, ultimo lavoro insieme a “E’ bello vivere liberi!” e  “La semplicità ingannata”,  a comporre una trilogia di un suo progetto sulle Resistenze femminili. Marta porta in scena un caso che si è svolto a Gloucester, Massachusetts nel 2008, dove diciotto ragazze, under 16, tutte della stessa scuola, rimangono incinte contemporaneamente. Alcune di queste ragazze  avrebbero organizzato e pianificato la loro gravidanza, con un patto segreto per poter allevare i bambini tutte insieme. Casualità o intento? Solo guardando lo spettacolo e l’interpretazione scenografica, registica ed interpretativa di Cuscunà, si svela l’intento, non solo narrativo,  di una storia ad  alta incisività sociale, in cui si muovono desideri, passioni, difficoltà e percorsi in una luce del tutto nuova   che si discosta da una storia già narrata  al cinema. Dietro a questa azione collettiva si muovono  persone che a teatro s’incarnano nell’assolo di personaggi del tutto particolari emblema di archetipi narrativi universali. Chiediamo alla regista ed autrice Marta Cuscunà alcune curiosità.

Da dove nasce l’idea di portare questa storia in scena, perché proprio questa e non un’altra?

Questa storia ha sollevato uno scandalo internazionale. E' disturbante e potente perché parla della pianificazione di una gravidanza condivisa e di una  comune femminile tra giovanissime mamme  come strumenti per mandare in tilt un intero sistema sociale, come  detonatori pacifici e vitali di un messaggio per la comunità.

Qual è l'intento con cui porti a teatro questa storia collettiva?

Tutto il mondo ha parlato di questa storia concentrandosi esclusivamente sulle 18 ragazze nel tentativo di smontare e “vivisezionare” il loro progetto di maternità fuori dagli schemi.

Io invece ho cercato di indagare il contesto sociale che ha scatenato la vicenda. Lo spettacolo quindi ruota intorno alla comunità, alla cellula-ospite in cui questo patto virale di gravidanza ha potuto mettere radici, prendere il potere e riprodursi. Questo punto di vista mi è sembrato necessario dopo   aver scoperto la confessione di una delle ragazze che svela di aver voluto creare un piccolo mondo nuovo e una nuova famiglia tutta sua, dopo aver assistito a un terribile femminicidio.

Quali messaggi  vorresti che restino nell’animo del pubblico ?

In questo spettacolo cerco di affrontare il tema della violenza maschile. L'indagine sulla società in cui questi fatti sono accaduti, mi ha portato ad analizzare  Breaking our silence, un documentario in cui il capo della polizia di Gloucester rivela come non passasse letteralmente giorno senza che il suo dipartimento ricevesse una segnalazione di violenza maschile in famiglia. I dati che fornisce sono impressionanti: 380 chiamate per violenza domestica in un anno (più di una al giorno) e 179 arresti. In una cittadina di 30.000 abitanti.

Ma quello che per me è stato davvero interessante è che il documentario racconta di come questa situazione avesse spinto 500 uomini a organizzare una marcia nelle strade della cittadina per sensibilizzare la comunità al problema. Uomini contro la violenza, così si sono autodefiniti.

Nelle interviste, molti di loro dicono di aver sentito il bisogno di mobilitarsi in prima persona, consapevoli del fatto che la violenza maschile è un problema delle donne (che inevitabilmente la subiscono) ma che soltanto gli uomini possono veramente risolvere, cambiando la cultura maschile dominante che continua a causare queste tragedie.

L'idea che sta alla base di Sorry, boys è che a Gloucester, la concomitanza tra il patto delle 18 ragazze e la marcia degli uomini contro la violenza, non siano stati solo una coincidenza e che tutto ciò abbia a che fare con il modello di mascolinità che la società impone agli uomini.

Vorrei che gli spettatori uscissero da teatro con un bisogno nuovo e autentico di affrontare il tema della violenza maschile, con la convinzione che in una società più giusta e pacifica tutti possiamo vivere meglio e essere più felici.

Questo è il tuo terzo spettacolo sulle “resistenze femminili”, ha qualcosa di diverso rispetto alle altre pièce teatrali nella realizzazione?

In questo spettacolo ci sono due cose molto diverse rispetto agli altri lavori.

La prima è che le protagoniste femminili non ci sono. Solo se loro mancano infatti, possono emergere gli altri personaggi, che hanno vissuto sulla loro pelle le conseguenze di questo patto e che ne sono stati categoricamente esclusi. In scena infatti ci sono solo gli adulti (i genitori delle ragazze, il preside e l'infermiera della scuola) e i giovani padri adolescenti che sono stati usati ma non ritenuti adatti a far parte del progetto segreto.

La seconda è che il racconto è affidato unicamente a dodici teste animatroniche: non ci sono più parti narrative ma solo dialoghi tra teste mozze.

I tuoi spettacoli sono sempre molto efficaci ed incisivi, lasciano impresso il messaggio che vogliono transitare,  con originalità e capacità scenica di grande livello. Siamo curiosi... quanto tempi impieghi tra quando  pensi a quando  porti a teatro un tuo lavoro?

I tre spettacoli della trilogia hanno avuto bisogno di un tempo molto lungo, in media ci lavoro per almeno due anni, quasi tre nel caso di Sorry, boys.

C'è una prima fase di ricerca di documenti e materiali riguardanti la storia, una seconda fase di scrittura della drammaturgia, una terza fase di progettazione e realizzazione delle macchine animatroniche, una quarta fase di prove in cui unisco la manipolazione dei pupazzi e la drammaturgia e un'ultima fase di allestimento in cui si realizzano il disegno luci e il disegno del suono dello spettacolo.

Raccontaci una cosa che non ti abbiamo chiesto e che ci vuoi confidare?

Sorry, boys è stato uno spettacolo molto difficile da realizzare perché reggere la scena raccontando una storia complessa solamente con delle teste meccaniche si è rivelata un'impresa delicata.

Per questo è stato fondamentale avere al mio fianco dei collaboratori con competenze specifiche e con una buona dose di coraggio: Marco Rogante, Paola Villani, Claudio Poldo Parrino, Alessandro Sdrigotti, Andrea Pizzalis e tutta la crew di Centrale Fies.

In particolare Paola Villani è la scenografa che ha accettato con entusiasmo di lavorare a questa idea delle teste mozze appese ai trofei da caccia.

Per realizzarle ci sono voluti due fabbri, un falegname, 13 volontari a cui fare il calco della testa.
1,74 quintali di ferro, 70 chili di siliconi e resine, qualche chilo di filamenti di PLA stampati in 3D, una quarantina di freni di biciclette e diverse migliaia di euro. In tutto ci sono 33 punti di movimentazione facciale e altrettante leve da manovrare. All'inizio non ero sicura di farcela ad animare tutto da sola. E ora sono molto felice di avercela fatta!

"Animali della fattoria", tra Orwell e musica una commedia che parla del potere

Gorizia - Quando George Orwell scrisse nel 1944 “La fattoria degli animali”, molto probabilmente non gli sarebbe mai venuto in mente di trasporre il libro sottoforma di musical. A quasi settant'anni di distanza, l'idea è venuta alla Compagnia Step, compagine teatrale anconetana che si è esibita sabato 2 aprile al Kulturni Dom, nell'ambito della 21a Rassegna Teatrale Nazionale “Un Castello di...Musical&Risate!”.

Per la regia di Alberto Manini, che ha curato anche la sceneggiatura della pièce, “Animali della fattoria” ricalca proprio fedelmente il romanzo dello scrittore inglese: in una fattoria come tante, gli animali iniziano a pensare che la loro vita sarebbe migliore se non fossero più comandate dall'uomo. La rivolta, però, esplode solo dopo l'uccisione di Vecchio Maggiore, il maiale più anziano e portavoce del malcontento: da lì le bestie faranno fronte comune, per cacciare il proprietario della fattoria.

Poco dopo, però, iniziano nuovi problemi: gli animali sono costretti a faticare quanto prima se non di più, tranne i maiali che si ritagliano il diritto di decidere per tutti. E, all'interno di loro stessi, nascono le fratture: tra Napoleon e Palladineve, la cui lotta per il governo della fattoria vedrà trionfare il primo mentre il secondo diventerà il “traditore” da additare per qualsiasi evento nefasto che capiti lì dentro. Il famoso caprio espiatorio.

La storia scritta da Orwell è un ritratto caricaturale e tragicomico della Russia comunista di Stalin, i cui vertici sono rappresentati proprio dalla “casta” dei maiali, subdoli e meschini pur di tenere tutto il potere per sé mentre gli altri animali si spaccano la schiena per il lavoro e vivono in miseria. A ognuno, l'autore aveva impresso una peculiarità, che si sposa con la loro natura: il cavallo Gondrano che emula lo stakanovista più assiduo; le pecore pronte ad obbedire agli ordini e via dicendo.

Nella produzione marchigiana, l'impianto centrale rimane fedele all'originale, con l'aggiunta di canti, balli e musiche firmate da Stefano Calabrese. Quest'ultime, però, non brillano per originalità: la sonorità folk è evidente, ma fanno parte di quel repertorio del “già sentito” attinto dai vari musical più celebri. Nulla da dire, invece, sulla voci: su tutte spiccano quelle di Marco Cocchi e Ilaria Giorgini, che danno spettacolo di sé.

I costumi, anch'essi creati appositamente per lo spettacolo, sono molto ben fatti: un altro elemento a favore di una commedia musicale realizzata con cura ma che, forse eccesivamente, cerca di tendere la mano verso un pubblico di famiglie a discapito del messaggio fortemente politico del testo. Che comunque rimane, tra le note che guidano la rivoluzione.

Esistenza e comicità, la ricerca di sè stessi secondo Ale e Franz

Esistenza e comicità, la ricerca di sè stessi secondo Ale e Franz

Gorizia – Una coppia di amanti che non si vede da vent'anni, un ladruncolo che si appella a un santo per far cambiare la propria vita, due ex comppagni di partito e molto più: ieri sera, sul palco del Teatro Verdi sold out per l'occasione, Ale e Franz hanno portato in scena il loro spettacolo “Tanti lati – latitanti”, prodotto da ITC 2000 e diretto da Alberto Ferrari.

Non una semplice commedia, ma un rimando continuo all'infinita ricerca dell'essere umano di sé stesso: tutti i personaggi che il duo ha impersonato sono infatti confusi, che incontrano una parte della loro vita a volte per caso, altre cercandola appositamente. Come i primi protagonisti, Enrico e Maria, che da tantissimo tempo non si incontrano dopo una storia d'amore finita all'improvviso e tanti rimpianti (e rimproveri) rimasti irrisolti.

Ci penserà poi il colpo di scena ad alta concentrazione di risate a risolvere il nodo dei misteri, per poi riannodarsi appena Ale e Franz vestiranno panni nuovi e affronteranno domande solo apparentemente diverse, ma in fondo tutte unite dallo spesso filo rosso dell'esistenza. E lo fanno come ormai ci hanno bituato da anni in tv, tra battute, gag e una certa improvvisazione che scade a volte in un umorismo già visto e sentito. Ma bisogna andare oltre per capire.

E oltre si cela una fitta ragnatela che unisce Shakespeare, Pasolini, Brect: teatri anche diversi tra loro, ma che riescono a trovare una sintesi nei disperati tentativi di due poveracci, senza niente e nessuno, di raggiungere la luna. Sperando in un miracolo che forse mai arriverà, come lo sparo che da il via a una nuova umanità più giusta ed eguale, che attende il comunista rimasto fedele alle sue idee nonostante siano caduti muri e ideologie.

La parte più forte dello spettacolo arriva quando sul palco viene proiettata una brevissima clip con Alda Merini, la straordinaria poetessa che trascorse una parte della sua vita in manicomio: una donna che, come lei stessa racconta, era “scesa all'inferno” lì dentro, in un posto dove amare era punito con l'elettroshock. Ma in mezzo a quelle macerie umane, lei si è ritrovata, come hanno tentato di fare anche i personaggi interpretati da Ale e Franz.

La ricerca arriva fino a Dio, che non si trova da nessuna parte: un sussurro rispetto al grido nicciano della “Gaia Scienza”, ma che scuote l'animo di fronte alla vita. La cui essenza va ricercata a qualsiasi età, in qualsiasi persona, nelle proprie idee per capire il bello e brutto di noi stessi. E, alla fine, prenderli in giro.

(Foto Vita Diocesana Pinerolese)

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