Esordio della Cuscunà per "Resistenze Femminili" al Miela. Breve intervista a Marta Cuscunà
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- Categoria: Teatro
- Pubblicato Giovedì, 07 Aprile 2016 20:10
- Scritto da serenella dorigo
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Trieste - Al via mercoledì 13 aprile al teatro Miela la rassegna Resistenze femminili, quattro appuntamenti, uno spettacolo teatrale e uno musicale, due documentari, tutti scritti e interpretati dalle donne, che raccontano alcune storie di donne che lottano o hanno lottato per la loro libertà. Inserita in Primavera di donne 2016, il programma di eventi organizzati dalla Provincia di Trieste, in occasione della giornata Internazionale della Donna, la rassegna Resistenze femminili vuole essere la prima tappa di un interessante percorso culturale che Bonawentura/ Teatro Miela proporrà al pubblico anche nella prossima stagione, seguendo il filo dell'emancipazione femminile e dei diversi significati del resistere nella società contemporanea.
Ancora una volta Marta Cuscunà fa centro con il suo nuovo spettacolo “Sorry, Boys – Dialoghi su un patto segreto per 12 teste mozze”, ultimo lavoro insieme a “E’ bello vivere liberi!” e “La semplicità ingannata”, a comporre una trilogia di un suo progetto sulle Resistenze femminili. Marta porta in scena un caso che si è svolto a Gloucester, Massachusetts nel 2008, dove diciotto ragazze, under 16, tutte della stessa scuola, rimangono incinte contemporaneamente. Alcune di queste ragazze avrebbero organizzato e pianificato la loro gravidanza, con un patto segreto per poter allevare i bambini tutte insieme. Casualità o intento? Solo guardando lo spettacolo e l’interpretazione scenografica, registica ed interpretativa di Cuscunà, si svela l’intento, non solo narrativo, di una storia ad alta incisività sociale, in cui si muovono desideri, passioni, difficoltà e percorsi in una luce del tutto nuova che si discosta da una storia già narrata al cinema. Dietro a questa azione collettiva si muovono persone che a teatro s’incarnano nell’assolo di personaggi del tutto particolari emblema di archetipi narrativi universali. Chiediamo alla regista ed autrice Marta Cuscunà alcune curiosità.
Da dove nasce l’idea di portare questa storia in scena, perché proprio questa e non un’altra?
Questa storia ha sollevato uno scandalo internazionale. E' disturbante e potente perché parla della pianificazione di una gravidanza condivisa e di una comune femminile tra giovanissime mamme come strumenti per mandare in tilt un intero sistema sociale, come detonatori pacifici e vitali di un messaggio per la comunità.
Qual è l'intento con cui porti a teatro questa storia collettiva?
Tutto il mondo ha parlato di questa storia concentrandosi esclusivamente sulle 18 ragazze nel tentativo di smontare e “vivisezionare” il loro progetto di maternità fuori dagli schemi.
Io invece ho cercato di indagare il contesto sociale che ha scatenato la vicenda. Lo spettacolo quindi ruota intorno alla comunità, alla cellula-ospite in cui questo patto virale di gravidanza ha potuto mettere radici, prendere il potere e riprodursi. Questo punto di vista mi è sembrato necessario dopo aver scoperto la confessione di una delle ragazze che svela di aver voluto creare un piccolo mondo nuovo e una nuova famiglia tutta sua, dopo aver assistito a un terribile femminicidio.
Quali messaggi vorresti che restino nell’animo del pubblico ?
In questo spettacolo cerco di affrontare il tema della violenza maschile. L'indagine sulla società in cui questi fatti sono accaduti, mi ha portato ad analizzare Breaking our silence, un documentario in cui il capo della polizia di Gloucester rivela come non passasse letteralmente giorno senza che il suo dipartimento ricevesse una segnalazione di violenza maschile in famiglia. I dati che fornisce sono impressionanti: 380 chiamate per violenza domestica in un anno (più di una al giorno) e 179 arresti. In una cittadina di 30.000 abitanti.
Ma quello che per me è stato davvero interessante è che il documentario racconta di come questa situazione avesse spinto 500 uomini a organizzare una marcia nelle strade della cittadina per sensibilizzare la comunità al problema. Uomini contro la violenza, così si sono autodefiniti.
Nelle interviste, molti di loro dicono di aver sentito il bisogno di mobilitarsi in prima persona, consapevoli del fatto che la violenza maschile è un problema delle donne (che inevitabilmente la subiscono) ma che soltanto gli uomini possono veramente risolvere, cambiando la cultura maschile dominante che continua a causare queste tragedie.
L'idea che sta alla base di Sorry, boys è che a Gloucester, la concomitanza tra il patto delle 18 ragazze e la marcia degli uomini contro la violenza, non siano stati solo una coincidenza e che tutto ciò abbia a che fare con il modello di mascolinità che la società impone agli uomini.
Vorrei che gli spettatori uscissero da teatro con un bisogno nuovo e autentico di affrontare il tema della violenza maschile, con la convinzione che in una società più giusta e pacifica tutti possiamo vivere meglio e essere più felici.
Questo è il tuo terzo spettacolo sulle “resistenze femminili”, ha qualcosa di diverso rispetto alle altre pièce teatrali nella realizzazione?
In questo spettacolo ci sono due cose molto diverse rispetto agli altri lavori.
La prima è che le protagoniste femminili non ci sono. Solo se loro mancano infatti, possono emergere gli altri personaggi, che hanno vissuto sulla loro pelle le conseguenze di questo patto e che ne sono stati categoricamente esclusi. In scena infatti ci sono solo gli adulti (i genitori delle ragazze, il preside e l'infermiera della scuola) e i giovani padri adolescenti che sono stati usati ma non ritenuti adatti a far parte del progetto segreto.
La seconda è che il racconto è affidato unicamente a dodici teste animatroniche: non ci sono più parti narrative ma solo dialoghi tra teste mozze.
I tuoi spettacoli sono sempre molto efficaci ed incisivi, lasciano impresso il messaggio che vogliono transitare, con originalità e capacità scenica di grande livello. Siamo curiosi... quanto tempi impieghi tra quando pensi a quando porti a teatro un tuo lavoro?
I tre spettacoli della trilogia hanno avuto bisogno di un tempo molto lungo, in media ci lavoro per almeno due anni, quasi tre nel caso di Sorry, boys.
C'è una prima fase di ricerca di documenti e materiali riguardanti la storia, una seconda fase di scrittura della drammaturgia, una terza fase di progettazione e realizzazione delle macchine animatroniche, una quarta fase di prove in cui unisco la manipolazione dei pupazzi e la drammaturgia e un'ultima fase di allestimento in cui si realizzano il disegno luci e il disegno del suono dello spettacolo.
Raccontaci una cosa che non ti abbiamo chiesto e che ci vuoi confidare?
Sorry, boys è stato uno spettacolo molto difficile da realizzare perché reggere la scena raccontando una storia complessa solamente con delle teste meccaniche si è rivelata un'impresa delicata.
Per questo è stato fondamentale avere al mio fianco dei collaboratori con competenze specifiche e con una buona dose di coraggio: Marco Rogante, Paola Villani, Claudio Poldo Parrino, Alessandro Sdrigotti, Andrea Pizzalis e tutta la crew di Centrale Fies.
In particolare Paola Villani è la scenografa che ha accettato con entusiasmo di lavorare a questa idea delle teste mozze appese ai trofei da caccia.
Per realizzarle ci sono voluti due fabbri, un falegname, 13 volontari a cui fare il calco della testa.
1,74 quintali di ferro, 70 chili di siliconi e resine, qualche chilo di filamenti di PLA stampati in 3D, una quarantina di freni di biciclette e diverse migliaia di euro. In tutto ci sono 33 punti di movimentazione facciale e altrettante leve da manovrare. All'inizio non ero sicura di farcela ad animare tutto da sola. E ora sono molto felice di avercela fatta!