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Last updateLun, 27 Feb 2017 8pm

Officine d'Autore porta "Hanna Arendt" a San Daniele per la Giornata della Memoria

Officine d'Autore porta

San Daniele del Friuli (Ud) - Trattare il tema della Shoa è ogni anno sempre più complesso. Il giorno della Memoria viene spesso accolto da giovani e non con borbottii seccati, stufi della troppo spesso retorica dietro alle parole di disappunto per ciò che successe. Ma ci sono film che riescono ad andare oltre a tutto ciò, raccontando personaggi chiave che lottarono per raccontare la verità sui campi di sterminio.

Per questo l'associazione Officine d'Autore ha scelto "Hanna Arendt" (2012) in lingua originale e sottotitolato in italiano come pellicola-evento ieri sera, proiettata davanti a un nutrito pubblico accorso al Cinema Splendor. Diretto da Margarethe Von Trotta e incentrato sul periodo in cui la celebre filosofa e scrittrice seguì il processo al nazista Eichmann a Gerusalemme nel 1961, il film è stato introdotto sinteticamente dalla professoressa Chiara Fragiacomo dell'IFSML e dai ragazzi di Officine come ogni martedì.

La Arendt (Barbara Sukowa) fu sicuramente una delle figure più discusse del secolo scorso. Ebrea tedesca allieva del filosofo nazista Heidegger, fuggì negli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale, quando i tedeschi conquistarono la Francia, dove lei si era rifugiata. Al suo nome è legato uno dei saggi più importanti del '900, "Le origini del totalitarismo", ma soprattutto il libro-reportage che le attirò critiche dall'interno mondo ebraico: "La banalità del male".

Inviata del The New Yorker per seguire il processo, la Arendt pensava di trovare come imputato un mostro assetato di sangue, nato per uccidere, invece si rivelò nient'altro che un grigio burocrate. Questo la colpì molto e, insieme alla scoperta che diversi capi ebraici collaborarono con i nazisti nell'organizzare i treni verso i campi di concentramento, fu l'elemento centrale della tesi che riportò nei propri articoli e nel libro: quell'uomo non era un carnefice ma solo un servitore, fin troppo scrupoloso, dello Stato. Le reazioni del pubblico, della comunità sionista e accademica furono di completo sdegno e odio verso la scrittrice, che nel film riesce a trasmettere un fortissimo senso di impotenza nel gridare le proprie idee che si infrangono contro un muro sordo. 

I primi piani che la Von Trotta riserva sono una delle chiavi del film: se è vero che sono lo specchio dell'anima, quelli di Eichmann non possono che essere grigi, dietro un vecchio televisore in bianco e nero, segno della sua umanità rifiutata. Un opera di grande potenza emotiva, che descrive con chiarezza il sentimento di una donna incredibile che non si è fermata al solo piangersi addosso ma è andata oltre. Come dovremmo fare tutti noi, non solo il 27 gennaio.

Concluso il Trieste Film Festival. "L'isola del granturco" si aggiudica il premio lungometraggi

Concluso il Trieste Film Festival.

Trieste - Si è conclusa giovedì con la proclamazione dei vincitori la 26ª edizione del Trieste Film Festival, rassegna del cinema dell'Est europeo. Il lungometraggio "Simindis Kundzuli" (L'isola del granturco, 2014) del georgiano George Ovashvili si è aggiudicato il premio più ambito (5000 euro).  

La coproduzione internazionale (Georgia, germania, Francia, Repubblica Ceca, Kazakhstan e Ungheria) è stata la più votata dal pubblico della manifestazione. Il film era nella short list per l’Oscar e passava in anteprima italiana.

La storia si svolge su un’isola alluvionale del fiume Inguri, che riappare a primavera e viene sommersa dalla piena in autunno. Qui, tra Georgia e Abkhazia che si sono combattute nel 1992-93, un vecchio abkhazo prende possesso della terra di nessuno appena le acque si abbassano.

Si insedia a poco a poco compiendo un rituale di ringraziamento, costruisce una baracca, ripara le rive dalla corrente, poi ci porta anche la nipote adolescente. Insieme rendono abitabile il luogo, mentre barche di armati passano in pattuglia.
    
Nella categoria dei corti, il riconoscimento è andato a Davay ne syogodni (Facciamo la prossima volta / Not Today) di Christina Syvolap, Ucraina, 2014.

Il premio al miglior documentario è stato assegnato a Something better to come (Qualcosa di meglio verrà) di Hanna Polak, Danimarca - Polonia 2014.
       
Tra i vincitori anche il film italiano “Frastuono” di Davide Maldi che si è aggiudicato il Premio Corso Salani “per la ricerca visiva e sonora, per la geometria inesatta delle composizioni e per l’idea filmica di uno spazio interiore vulnerabile e dissonante”.

"Mommy" finalmente allo Splendor di San Daniele

San Daniele del Friuli (Ud) - É stato necessario attendere il suo quinto film per osservare il mondo "secondo" Xavier Dolan. Ma, finalmente, il talento di questo regista venticinquenne canadese è arrivato anche nelle sale cinematografiche italiane, dopo aver vinto il Premio della Giuria all'ultimo festival di Cannes, con "Mommy" (2014, drammatico). E ieri sera è stato proiettato al Cinema Splendor di San Daniele, nella programmazione di "Visioni d'insieme" e introdotto dai ragazzi di "Officine d'autore".

In un Canada dei giorni nostri, Diane (Anne Dorval) è una madre single ancora piacente ma incapace di gestire la propria vita. Niente lavoro fisso, oppressa dai debiti e con la testa di un'adolescente, la donna si ritrova all'improvviso a gestire suo figlio di 15 anni Steve (Antoine-Olivier Piron) cacciato dall'istituto di recupero in cui era rilegato. Il giovane ha un rapporto di estremo bisogno della madre, uno stadio del complesso freudiano di Edipo ossessivo. 

A tutto questo, si uniscono le sue frequenti crisi isteriche violente, nate dopo la morte del padre che provocano un suo completo abbandono a una rabbia feroce. La piccola famiglia vive tra alti e bassi, fino a quando non si inserisce Kyla (Suzanne Clement), la vicina di casa balbuziente. Lei fa l'insegnante ma si è presa un anno sabbatico, seguendo con la figlia il marito che si sposta di continuo per lavoro. L'incontro con madre e figlio farà prendere alla vita di tutti una nuova strada, riuscendo a illuminare perfino un futuro "normale".

I caratteri umoristici di un duo sgangherato come Diane-Steve si alternano al grottesco del comportamento del figlio, scorie di una passato incolore e degradato dai psicofarmaci. La madre, figura patetica nella propria incapacità di organizzarsi la giornata, fa l'impossibile per avere un rapporto sereno con Steve, completamente assuefatto di lei, ma il suo amore si scontra continuamente contro la violenza di lui.

Kyla riesce a portare un equilibrio nella casa, abbandonando praticamente la sua però. La sua iniziale timidezza lascia spazio a una flebile speranza di cambiamento, fino a quando quello che non doveva accadere sarà invece inevitabile. È la mezza misura tra gli eccessi che dominano la pellicola, che offre il suo affetto per tentare di salvare un rapporto difficilissimo.

Dolan, attraverso un modo d'inquadrare i personaggi figlio dell'epoca dei social network (le scene sono riprese in gran parte come se si usasse un telefonino in verticale), ritrae l'oppressione che queste vite provano nella loro esistenza. Ne nasce così un film forte, di grande spessore nonostante la giovane età del regista, che fa sperare e poi ti colpisce a tradimento allo stomaco. Per poi scegliere solo una cosa: la libertà. Magari malata, incosciente, ma pur sempre libertà.

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