Intervista all’interprete principale di “Der Kaiser von Atlantis”
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- Pubblicato Mercoledì, 03 Ottobre 2012 09:24
- Scritto da Roberto Calogiuri
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Trieste - Nicolò Ceriani è un baritono italiano che, dopo gli studi di violino e pianoforte, studia canto con Rodolfo Celletti a Milano e fonda il gruppo Giovani in Opera. Dal 1994 svolge un’intensa e versatile attività – sia di baritono lirico che buffo - nei principali teatri italiani ed europei. È autore e interprete di spettacoli teatrali. Attualmente è impegnato nel ruolo della Morte in “Der Kaiser von Atlantis” in programma alla risiera di San Sabba il 2 ottobre alle ore 21.
Maestro Ceriani, cominciamo con una nota di mistero sul melodramma da lei interpretato. Su un numero di “Musical Time” si racconta che il manoscrito del “Kaiser von Atlantis” presentava un tale numero di correzioni che l’editore si rivolse a una spiritista la quale, ottenute istruzioni medianiche direttamente dall’autore, le ha comunicate all’editore il quale ha pubblicato la versione definitiva. Cosa ne pensa?
Ne ho sentito parlare. Si tratta di un'esagerazione scandalistica, che ha visto forse la partecipazione anche di qualche fattucchiera di passaggio. Ma l’aneddoto è curioso perché chiude il cerchio magico della teosofia abbracciata da Ullmann, visto che la sua fondatrice era stata la medium Blavatski. E poi noi in Italia ci siamo bevuti per anni, senza colpo ferire, le storie relative alle sedute spiritiche durante il caso Moro. Perché non credere che la partitura originale e definitiva del Kaiser sia stata dettata dallo spirito di Ullmann in persona?
Ma per tornare all'autografo dello spartito, io ne ho una copia e non ravviso tutta questa difficoltà interpretativa. So che recentemente il Maestro Lotoro ha svolto un'analisi comparata dei manoscritti, tra quelli conservati a Gerusalemme, a Basilea ad Amsterdam e a Terezin, e ne avrebbe tratto una nuova edizione che in alcuni punti differisce sostanzialmente da quella ufficiale, ma non ne conosco le varianti, anche se mi promettevo proprio in questi giorni di contattarlo per avere maggiore contezza del suo lavoro.
Ha fatto un paragone con gli anni di piombo… e inoltre il pubblico triestino conosce anche la sua attività di autore di spettacoli talvolta ”engagé”. Quindi la musica lirica può andare a braccetto con l’impegno sociale e politico?
Per rispondere con una banalità, inevitabile in questi oscuri tempi reazionari, dirò che ovviamente tutto è politica. E se la politica fosse, come dovrebbe essere, una delle attività sociali e organizzative tra le più nobili, sarebbe essa stessa un fenomeno culturale. Il testo del “Kaiser” a esempio è un testo provocatorio e violento, anche più efficace di quello di un qualsiasi Masaniello della politica nostrana; ma mentre passano per terribili le voci di un Grillo, di un Renzi o di un Sallusti o Ferrara qualsiasi, anche quando assai spesso enunciano banalità, le parole del “Kaiser” si rivelano come un testo poetico trasfigurato il cui contenuto sociale/esistenziale passa in secondo piano. Invece sono politica allo stato puro e più alto.
Dovremmo leggere tutto quello che esce dall'Opera di Ullmann, e non solo dalle parole di Kien, ma soprattutto dalle note del Compositore, note che ci indicano significati non sempre politically correct. Cosa diremmo se qualcuno affermasse che la politica di distruzione di massa è giustifica da una salvifica palingenesi dell'Umanità? Probabilmente lo denunceremmo, e sarebbe condannato. E se Ullmann, nelle condizioni in cui era, avesse provato a dirci qualcosa di lontanamente simile, anche se in modo non così brutalmente diretto, ma liricamente consolatorio?
Appunto, per tornare all’argomento principale: cosa significa rappresentare nella Risiera di San Sabba un melodramma scritto in un campo di concentramento?
E' evidente che “il Kaiser”, in condizioni diverse, non sarebbe stato concepito così da Ullmann. I suoi lavori testimoniano scelte drammaturgiche anche diverse dal taglio iconico/simbolista scelto in questa occasione. Perciò la riflessione sulla morte, centrale nel “Kaiser”, assume una rilevanza assoluta perché è stata concepita e maturata in un luogo in cui la vita non poteva presentarsi come progetto esistenziale ma solo come angosciosa attesa della fine. Quindi proporre questo melodramma in una sede così piena di tragiche suggestioni come la Risiera, è un' idea che arricchisce la trama musicale, già complessa, e il contenuto drammaturgico; ma rischia anche di svilirli, facendone nient’altro che la celebrazione di un buon compositore ebreo, ucciso ad Auschwitz.
In sostanza il “Kaiser” è uno dei capolavori del Teatro musicale del Novecento, indipendentemente dalla tragica fine del suo compositore. Inoltre è evidente che in una città come Trieste, apparentemente musicalissima (e già Barison lo diceva con forte intento ironico e polemico!) ma sostanzialmente provinciale e conservatrice, per riuscire a sdoganare una musica scritta dopo il 1940 c'è bisogno di una promozione che attiri il grande pubblico e le istituzioni, anche attraverso il passepartout della parola Shoa. Quindi, ben vengano queste iniziative, se permettono di rappresentare qualcosa che altrimenti sarebbe improponibile ai nostri concittadini. Non vorrei che Ullmann sembrasse importante soltanto perché è morto senza veder eseguite le sue opere, e non perché voce originalissima e quasi unica nel Novecento musicale.
Cosa si prova a interpretare Hitler, seppure trasfigurato, in un luogo che ha visto tanta sofferenza per colpa dei nazisti?
Non credo che il “Kaiser” rappresenti necessariamente Hitler, anche se così pensavano i nazisti di Terezin che censurarono l'opera. La sovrapposizione dei due personaggi é oggi quasi inevitabile. Ma una cosa è il libretto, e altra cosa sono la musica e gli interventi testuali di Ullmann. Mi spiego: in una prima stesura, il Kaiser non aveva un ruolo centrale nell'opera e parlava soprattutto per bocca dei suoi portavoce (l'altoparlante ed il Tamburino). Ma il desiderio di creare un vero e proprio personaggio, anziché una caricatura, era troppo forte in Ullmann, tanto che decise di provare a esprimere il Male.
Certo è che se nel finale da me interpretato c’è una contrapposizione e una lotta tra il Kaiser e la Morte, nel finale originario di Ullmann, intravedo una trasfigurazione del Kaiser nella Morte ed un desiderio non più di sostituirsi, ma di annullarsi in essa, quasi con voluttà distruttiva. Amore, Morte e Trasfigurazione sono anche alla base delle tematiche espressive dell’Arte tedesca tra Otto e Novecento, e Ullmann sembra qui sintetizzarle da un posto tragicamente privilegiato: come direbbe Todorov, “Di fronte all’Estremo”.
In questo melodramma, quindi, è maggiore il pregio musicale o quella della testimonianza storica?
Il pregio musicale senza alcun dubbio. Si tratta di un’opera sospesa tra il melodico rarefatto atonalismo berghiano e l'espressionismo di Weill, ed è importante nella storia della musica al pari di Zemlinski o Janaceck, per fare i primi due nomi che mi vengono alla mente. La rilevanza storica è tale solo in quanto causa occasionale e stimolo alla composizione. I pregi musicali però sono talmente numerosi, che per parlarne ci vorrebbe una pubblicazione ad hoc, per cui mi limiterò qui ad elencare la sofisticata raffinatezza delle soluzioni timbriche, i ricchissimi allusivi giochi di rimando ad altre composizioni insistentemente citate, ognuno dei quali con volontà espressive totalmente diverse, la compattezza della scrittura vocale ed i geniali scarti armonici nei momenti topici dell'opera.
A quale ruolo, del suo repertorio o del repertorio lirico, assomiglia quello del Kaiser per difficoltà vocale o impegno nella recitazione?
Penso prima di tutto a Wozzek e come temperie culturale all'Elettra, anche se il ruolo di Oreste è vocalmente meno fratto e dissociato. L'impegno per altro è di breve durata ma la tessitura è acutissima e offre poche possibilità di recupero. Se poi si decide di cantare l'Aria finale originale di Ullmann e non il testo di Kien, le difficoltà aumentano, in quanto dopo una scena fortemente espressionista, si dovrebbe riuscire ad eseguire l'addio del Kaiser con una vocalità liederistica contenuta e con una voce meno vibrata e quasi non girata, tipica della musica sacra oratoriale. Per quanto riguarda la recitazione, tutto dipende dal regista e dalle sue richieste. Certo è che si tratta di una figura da non improvvisare in poche sedute di prove, ma da interpretare dopo un lungo lavoro di preparazione personale.
[Roberto Calogiuri]
Autunno con i musicisti triestini del Novecento. Cinque concerti a ingresso libero
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- Pubblicato Lunedì, 01 Ottobre 2012 14:28
- Scritto da Tiziana Melloni
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Trieste – Giulio Viozzi, Vito Levi, Gianpaolo Coral, Eugenio Visnoviz e Ferruccio Busoni, protagonisti rilevanti della storia musicale di Trieste nel ’900, sono i cinque musicisti ai quali è dedicata l’edizione 2012 di pentaGramma, il ciclo di incontri “tra musica e parole” promosso dal Conservatorio Tartini, a cura del direttore Massimo Parovel e della docente Rita Verardi, di scena dal 4 ottobre al 29 novembre nella Sala Ridotto Victor De Sabata del Teatro Verdi di Trieste (alle ore 18.30, con ingresso libero).
"Questa terza edizione di pentaGramma – spiega la curatrice, Rita Verardi - permette infatti di sintonizzarsi con due appuntamenti speciali della stagione sinfonica d’autunno del Teatro Verdi: il 5 e 6 ottobre due prime esecuzioni di musiche di Visnoviz e, il 26 e 27 ottobre la prima esecuzione moderna del “Sabato del villaggio” di Busoni, opere riportate alla luce dopo quasi un secolo di oblio. PentaGramma ha affidato a studiosi e musicisti che hanno operato e tuttora operano all’interno del Conservatorio - alcuni ne sono stati anche prestigiosi studenti - una ricognizione viva e articolata sulla vita musicale di Trieste per quasi un secolo.
Ivano Cavallini, Massimo Favento, Fedra Florit, Adriano Martinolli D’Arcy, Fabián Pérez Tedesco, Maria Letizia Michielon, Fabio Nieder, Paolo Da Col, Elia Macrì, Karina Oganjan, Marco Sofianopulo rintracceranno i fili sottili che hanno collegato così diversi compositori al Conservatorio, al Teatro Verdi, alla vita musicale e culturale della città, evidenzieranno il valore del loro contributo che va ben oltre i confini locali, e la ricchezza di un’eredità intellettuale che continua a dare frutti». Il terzo ciclo di pentaGramma, realizzato in sinergia con il Teatro Lirico Giuseppe Verdi, può contare anche sulla collaborazione di Associazione Chamber Music, Associazione Chromas, Circolo della Cultura e delle Arti, Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl”, della RAI Sede regionale per il FVG e della Cappella Civica del Comune di Trieste.
A inaugurare la rassegna sarà, giovedì 4 ottobre, l’appuntamento dedicato a “Eugenio Visnoviz, un paradigma della cultura musicale a Trieste nel primo novecento”, a cura di Ivano Cavallini con il contributo di Massimo Favento e collegato al concerto del 5-6 ottobre della Stagione Sinfonica del Teatro Lirico “Giuseppe Verdi” di Trieste. Solo nell’ultimo tratto dell’Ottocento l’Italia volse lo sguardo alla sinfonia e alla musica da camera. A Trieste, invece, lungo l’intero arco del secolo, la vita musicale fu contrassegnata da un’attività strumentale vivace e continua grazie allo stretto contatto con la civiltà austro-tedesca. L’attitudine a eseguire le partiture più rimarchevoli del Classicismo viennese e dei romantici fu per il capoluogo giuliano un fatto spontaneo, testimoniato, per citarne alcuni, dai gruppi di Scaramelli, Heller, Castelli e Jancovich.
In questo contesto si colloca il “caso Eugenio Visnoviz”, pianista virtuoso e compositore scomparso prematuramente. Il suo genio fiorì nel momento in cui Trieste, reciso il rapporto con l’Europa centrale e divenuta da centro cosmopolita una città di frontiera, toccò paradossalmente il vertice della propria cultura in uno stato di spaesamento. Autore dotato, Visnoviz sviluppò un personale disegno compositivo all’insegna di Brahms, interpretabile, forse, come una fuga dalla realtà per una ricerca di sicurezza in un passato florido, mitteleuropeo, autenticamente triestino.
Si prosegue, giovedì 18 ottobre, con l’omaggio al compositore e musicologo triestino “Giampaolo Coral: dall’incisività misteriosa del suo atto creativo al Coral Award 2012”. A cura di Fedra Florit con il contributo di Adriano Martinolli D’Arcy e la partecipazione di Fabián Pérez Tedesco vuole essere un omaggio alla figura di Coral – scomparso improvvisamente agli inizi del 2011 – e, in un senso più ampio, un’ideale proiezione del suo lavoro verso il futuro, in modo da mantenere viva una figura ma anche un atteggiamento etico, oggi più che mai importanti. Il “Premio Trio di Trieste - Coral Award”, che si svolgerà a Trieste dal 25 al 27 ottobre 2012, rappresenta un ideale passaggio di testimone ai compositori emergenti, e uno stimolo a vivificare la musica contemporanea .
Mercoledì 24 ottobre, riflettori su “Un nuovo inizio. L’estetica musicale di Ferruccio Busoni”, a cura di Maria Letizia Michielon e Fabio Nieder. In occasione della prima in tempi moderni de “Il sabato del villaggio” di Ferruccio Busoni, nell’ambito della Stagione Sinfonica del Teatro Verdi, l’incontro propone una riflessione sull’estetica musicale e il linguaggio compositivo di un artista considerato la chiave di volta tra la cultura italiana e quella mitteleuropea a cavallo tra il XIX e XX secolo. Verranno ricostruite la sua ampia formazione intellettuale e lo straordinario talento creativo, evidenziando le connessioni con le avanguardie novecentesche e l’attualità di una tensione artistica innovativa, sempre proiettata al futuro. L'incontro è collegato al concerto del 26-27 ottobre della Stagione Sinfonica del Teatro Lirico “Giuseppe Verdi” di Trieste.
Giovedì 8 novembre è in programma il penultimo appuntamento di pentaGramma: “Libri parlanti. Vito Levi e la Biblioteca del Conservatorio di Trieste”, a cura di Paolo Da Col con la partecipazione di Elia Macrì e Karina Oganjan permetterà di approfondire i tratti peculiari e ‘parlanti’ della biblioteca del Conservatorio di Trieste, frutto di acquisti operati a più riprese e di lasciti di alcuni interpreti della ricca vita musicale triestina tra Otto e Novecento. Un patrimonio che riassume e testimonia in sé quel passato e nutre con i suoi costanti aggiornamenti la formazione e la conoscenza delle nuove generazioni. La biblioteca porta un’impronta significativa, che le è stata conferita da chi per più tempo e con maggiore e pregnante incisività l’ha diretta e formata: Vito Levi. Presso il Conservatorio triestino e le istituzioni che ne precedettero l’istituzione, Levi unì infatti all’insegnamento della composizione e della Storia della Musica la direzione della biblioteca. Le sue acquisizioni compongono un’ampia e scelta raccolta di testi musicali e musicologici del Novecento, viva espressione di una vasta e aggiornata cultura.
Infine, a suggellare la terza edizione di pentaGramma sarà, giovedì 29 novembre, “Allegro impetuoso”. Itinerario confidenziale attraverso la vita e le opere di Giulio Viozzi”, a cura di Marco Sofianopulo. Spesso le composizioni di Giulio Viozzi portavano indicazioni di movimento anticonvenzionali anche quale attestazione della sua individualità indipendente: un aggettivo non a caso ricorrente era “Impetuoso”. Giulio Viozzi, alla sua operosità, generosità, ad ogni manifestazione del suo temperamento estroverso aggiungeva anche una forte componente passionale.
Sarà un itinerario attraverso quello che fu il suo linguaggio prediletto, quello che tenterà di tracciare Marco Sofianopulo, allievo e quasi-figlio-adottivo. Un itinerario fatto soprattutto di ascolti “guidati”, proposto in collaborazione con il Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl”, la RAI Sede regionale per il Friuli Venezia Giulia, la Cappella Civica del Comune di Trieste e alcuni Archivi Privati.
“L’imperatore di Atlantide ovvero il rifiuto della Morte” prima opera lirica messa in scena alla Risiera di San Sabba
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- Pubblicato Venerdì, 28 Settembre 2012 17:11
- Scritto da Roberto Calogiuri
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Trieste - La Morte, offesa e disorientata dall’orrore della guerra moderna, decide di scioperare e si rifiuta di obbedire al volere del tiranno. Questo è il nucleo di “Der Kaiser Von Atlantis”, "L’imperatore di Atlantide ovvero il rifiuto della Morte", opera lirica in un atto del musicista ceco Viktor Ullman, su libretto di Peter Kien, suo connazionale, concepita e scritta nel campo di concentramento di Terezìn nel 1944, qualche mese prima che l’autore fosse trasferito ad Auschwitz e trucidato nelle camere a gas. Esempio di musica "concentrazionaria", o come voleva la propaganda nazista, della musica "degenerata", è stata rappresentata a Trieste il 27 settembre per iniziativa dell'Associazione Musica Libera e RadioShalom. Causa il maltempo, si è dovuto rinunciare alle quinte della Risiera di San Sabba, com’era in programma, privando lo spettacolo della più congeniale e suggestiva tra le cornici possibili a beneficio del palcoscenico del teatro Verdi di Muggia.
Fin dalle prime battute, l’orecchio è conquistato da un’armonia proporzionata e asciutta, geniale nell’approfondimento immediato di un’atmosfera straniante che diviene in breve tragicamente familiare e da cui si diramano linee melodiche ora fratte e convulse, ora spiegate e distese, in una sintesi magistrale di espressionismo e tardo romanticismo.
Per un’opera lirica così connotata, è facile che l’indiscutibile pregio musicale e drammatico sia messo in ombra da un messaggio che supera l’enormità dell’olocausto. Se lo scopo dell’arte è quello di sanare il conflitto tra sé e la realtà, niente diviene più tragicamente audace quanto il realizzarlo in un campo di concentramento nazista. Se compito dell’arte è di saldare tensione etica ed estetica, Ullman e Kien hanno tentato l’impossibile perché mai sublime poetico e orrore materiale sono così distanti come dietro un filo spinato. Eppure essi hanno saputo dare senso a qualcosa che senso non ha: l’istinto vitale nell’anticamera dello sterminio. Hanno tentato di conciliare la contraddizione estrema: l’esistenza della vita dentro e oltre la morte.
La creazione poetica è la dimensione in cui i due autori hanno potuto ottenere un riscatto sul gigantesco annullamento che il nazismo stava attuando, perché il progetto dell’imperatore, che si prefigge di distruggere il genere umano con la proclamazione della “guerra di tutti contro tutti”, si dissolve con la dissoluzione dell’imperatore medesimo. Da qui può nascere un nuovo modo di intendere il rapporto tra morte e vita in cui l’assassinio sia bandito. “La Morte diventa un poeta se si congiunge ad Amore” cantano due soldati nemici, un maschio e una femmina, uniti da un sentimento nuovo in un duetto che è anche uno dei momenti centrali e musicalmente più intensi del melodramma, cui qualche eco straussiana conferisce una magia particolare.
Tuttavia, questo intento fu sventato dalla censura nazista che ne vietò la rappresentazione nel campo poiché scorse con facilità, dietro la figura del tiranno, le sembianze di Hitler e, si dice, di Eva Braun nel personaggio del Tamburino. Perciò, ogni volta che la si rappresenta, si rinnova la rivincita della cultura e dell’arte contro la brutalità del totalitarismo. Affidare questo messaggio alla lirica significa non solo renderlo un valore immortale, ma anche farlo penetrare direttamente nelle coscienze, senza bisogno di traduzioni e spiegazioni. Ciò grazie all’eccezionale maestria di Ullmann, - allievo di Schoenberg in contrappunto e orchestrazione e poi di Zemlinsky - che ha consegnato alla storia una partitura originale e impervia, esigente tanto nella tessitura vocale spinta verso l’alto quanto nella strumentazione, avendo l’orchestra un impianto cabarettistico imposto anche dalle risorse limitate di un lager: sedici elementi tra cui figurano sassofono, chitarra e banjo.
Un discorso a parte meriterebbe il librettista Peter Kein, valente disegnatore, e il libretto – che scrisse a soli venticinque anni prima di morire di malattia -, pregnante tanto quanto la musica; un testo stimolante che travalica la satira politica e disegna una parabola allegorica poeticamente complessa, misteriosa e misterica nella densità dei simboli evocati, come la complicata dimensione esistenziale e il turbinare degli stati d’animo che ha tentato di descrivere.
Quindi, un plauso alla prova della compagnia che ha rappresentato l’opera in lingua originale e che si è misurata con un impegnativo e arduo esempio di melodramma moderno, costellato di citazioni - anche ironiche – che richiamano l’alta tradizione musicale e canora del ‘900. In particolare: Karina Oganjan (Bubikopf ) e Dax Velenich (Un soldato) che hanno aggiunto al duetto centrale una vocalità duttile, calda e non priva di trasporto emotivo. Nicolò Ceriani (L’imperatore di Atlantide) dalla voce ferma e precisa quanto drammatica la recitazione, con le quali ha dato sapiente risalto alla grande e difficilissima aria finale. Intelligente e disinvolta l’interpretazione della presenza surreale dell’Arlecchino di Francesco Paccorini. Hanno completato degnamente il cast Hektor Leka (L’altoparlante), Giuliano Pelizon (La Morte), Martina Rinaldi (Il Tamburo). Orchestra “Abimà”, direzione incerta e farraginosa di Davide Casali, regia di Lino Marrazzo, scene di Endri Kosturi (elegante e struggente l’idea della enorme luna piena in campo azzurro), luci di Samuele Orlando.
Una platea al completo, nonostante lo spostamento di sede, ha decretato un successo ampiamente meritato. Tuttavia, per non venir meno all’opportunità mancata, lo spettacolo sarà replicato tra le mura della Risiera martedì 2 ottobre, ore 21. Ingresso libero.
Nella foto: il compositore, ritratto dal librettista Peter Kien, nel lager.
Roberto Calogiuri
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