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Last updateLun, 27 Feb 2017 8pm

“Il sabato del Villaggio” conclude la stagione sinfonica del Teatro Verdi

“Il sabato del Villaggio” conclude la stagione sinfonica del Teatro Verdi

Trieste – 26 e 27 ottobre 2012. Il teatro Verdi di Trieste chiude un’originale e preziosa stagione sinfonica con “Il sabato del villaggio”, una cantata per soli, coro e orchestra, del musicista - triestino per parte di madre - Ferruccio Busoni, risolvendo felicemente il mistero di questa partitura, riapparsa a Berlino nel 1965 in una forma lacunosa e di non facile lettura. Un evento significativo per essere la prima esecuzione moderna, a centotrenta anni dalla prima assoluta di Bologna.

Con ciò, in un momento critico per la Fondazione lirica, la scelta artistica del teatro rappresentato dal commissario Claudio Orazi, lancia un messaggio di attenta sensibilità per i temi culturali e musicali, ma anche squisitamente umani e umanistici, implicati nell’incontro - antico come la cultura occidentale - di musica e poesia. Infatti: la poderosa e ambiziosa composizione di Busoni s’intitola a uno dei più famosi canti recanatesi di Giacomo Leopardi.

In effetti, c’è qualcosa che rende, o dovrebbe rendere, Giacomo Leopardi molto caro ai musicisti: il suo assunto che la musica - più che la parola poetica -  sia l’unica arte che non imiti la realtà, ma sia capace di esprimere direttamente  il “sentimento” tratto da se stessa e non dalla natura. Perché la musica non ha bisogno di mediatori materiali. E non solo: la musica condivide con il canto, che possiede in misura anche maggiore, la meravigliosa virtù di agire sull’animo umano.

Non sorprende quindi che Busoni adolescente sia stato attratto da Leopardi, e la cosa dovette essere naturale se si considera che il musicista fu precocissimo per intelligenza e inclinazione umanistica. Di più: tra il padre di Leopardi e quello di Busoni c’è una somiglianza sorprendente: entrambi furono velleitari, megalomani, autoritari e gelidi; trasferirono nei figli le proprie ambizioni culturali con modi da tiranno, con i meriti e i demeriti di ogni padre maestro. E procurarono a entrambe gli anni amari e tormentati dei bimbi prodigio. Busoni ricorderà con angoscia, per tutta la vita, quel “fagli sentire!” con cui il padre lo esibiva in pubblico come un raro fenomeno di esecutore pianistico – che in effetti fu. Né furono sufficienti le cure materne a temperare l’orgoglio paterno: della marchesa Antici si conosce l’altezzoso disinteresse per la prole. La madre di Busoni, la triestina Anna Weiss, amorevole e protettiva, fu estromessa dal rapporto con il figlio affinché, fin dall’età di sette anni, potesse debuttare in pubblico, e proprio a Trieste il 24 novembre  1873.

Non può sorprendere nemmeno che il giovane Busoni incontrasse la risonanza dei propri sentimenti nella poesia di Giacomo Leopardi, e in speciale modo nel Sabato del villaggio, il canto scritto nell’ultimo soggiorno a Recanati, in una delle più cupe stagioni di infelicità e solitudine del poeta. Un giovane sensibile e appassionato, come il diciassettenne Busoni, dovette condividere il nucleo pessimista della poesia: l’immagine del Sabato come metafora del piacere che si esaurisce nell’attesa e di una giovinezza animata da un’aspettativa destinata a fallire. Ma anche l’invito a godere della gioia incosciente, senza anticipare le inevitabili delusioni del futuro. Quindi musicò la poesia nella maniera che abbiamo ascoltato: con un talento indiscutibile, non semplicemente descrittivo ma additivo di significato poetico, quasi un’esegesi della malinconia, non trascinante sebbene concepita con l’incoraggiamento amabile e caldo di Arrigo Boito, sotto il cui influsso produsse questa composizione.

Una composizione giovanile, forse non simmetrica - ma nemmeno la poesia di Leopardi lo è -, ma omogenea e organica nella tensione orchestrale e nella strumentazione, accorta nell’uso dei colori vocali, originale nelle interlocuzioni del coro, non scontata nelle immagini sonore, a buon diritto la prima vera affermazione come compositore.

Affiorano spesso le lezioni di Bach, Beethoven e Liszt, che Busoni filtra criticamente pur anticipando certe suggestioni alla maniera di Ravel o di Rimskij-Korsakov. Sin da qui si nota come Busoni sia una cerniera tra l’800 tedesco e un ‘900 più europeo che italiano, non impressionista né verista. E, forse per questo, più riconosciuto e apprezzato in area germanica che mediterranea. Un pubblico non infiammato in un teatro poco gremito – sebbene gli abbonamenti e il gradimento siano in netta ripresa – ne sono la prova.

Il concerto è stato diretto con sicurezza espositiva dal maestro Donato Renzetti che ha guidato l’orchestra e il coro del Verdi. Erika Grimaldi (soprano), Eufemia Tufano (contralto), Roberto Iuliano (tenore) in alcuni momenti un po’ in affanno e Nicolò Ceriani (basso) i solisti che hanno interpretato con buona partecipazione emotiva.

Ultimo di fatto, ma  non per demerito, un plauso alla revisione e ricostruzione critico filologica del maestro compositore Marco Taralli grazie alla cui professionalità abbiamo la sistemazione della partitura così come è stata eseguita.

(In apertura una foto d'epoca che ritrae Ferruccio Busoni, Vienna 1877)

[Roberto Calogiuri]

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