Madre dell'assassino e vedova della vittima in un percorso di riconciliazione: testimonianza a Zugliano
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- Categoria: Uomini e diritti
- Pubblicato Lunedì, 16 Marzo 2015 11:00
- Scritto da Corinna Opara
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Zugliano (Ud) - Il messaggio proposto «in punta di piedi», nell'introduzione, da don Piergiorgio Rigolo, cappellano del carcere di Pordenone, è che «alle volte, nella vita, accadono situazioni che sembra impossibile diventino possibili», cosicché il loro manifestarsi provoca stupore, vibrazioni nell'animo, ma anche «una provocazione luminosa nella società».
È il caso della storia di Claudia Francardi e Irene Sisi: la prima è la vedova di Antonio Santarelli, appuntato dell'Arma dei Carabinieri, la seconda è la madre di Matteo, il giovane adolescente che nella Pasqua del 25 aprile 2011 ha colpito il marito di Claudia alla testa portandolo, dopo una lunga sofferenza, alla morte.
Le due donne hanno raccontato il loro percorso di riconciliazione - la "lezione dell'anima", come la chiamano loro -, nella serata di venerdì 6 marzo, al centro Giovanni Balducci di Zugliano (Ud). Un esempio di giustizia riconciliativa da cui Matteo, autore del gesto mortale, non è rimasto escluso: anche lui, attraverso la madre, ha intrapreso un percorso interiore nella comunità di don Antonio Mazzi a Milano, che l'ha portato oggi a iscriversi all'Università per diventare educatore in carcere.
A loro volta, le due donne hanno aperto l'associazione "AmiCainoAbele", nata per diffondere la cultura del perdono, della riconciliazione e della responsabilità (tra le attività anche incontri con gli studenti), affinché nessuno possa dire "A me non toccherà mai": perché quando accade, purtroppo, accade.
Inizia a parlare Claudia, che racconta la storia vista con gli occhi di moglie e madre di un bambino che aspettava il ritorno di un padre che non sarebbe mai tornato. Questa presa di coscienza fu il momento in cui Claudia, fino a quel momento sostenuta dalla speranza e dalla fede, crollò, lasciandosi prendere dalla depressione: «le giornate erano senza senso, non volevo più vedere Antonio, tante volte ho pensato di soffocarlo con un cuscino e poi di morire io», racconta, «l'unica ora d'aria della giornata era dalle undici di sera a mezzanotte, cioè quando dormivo», «il mio desiderio era solo sparire. Non stavo bene in nessun posto e non riuscivo nemmeno a fare le piccole cose di ogni giorno.
"Devi pensare a tuo figlio", mi dicevano, ma io non ero in grado; non lo chiamavo più, mi ero sovraccaricata del suo dolore, figlio di padre vivo e io moglie di marito morto». Nel frattempo Claudia incontra Irene, la madre di Matteo, e insieme, seppur in modo diverso, trovano la forza di trasformare il loro dolore. Durante le fasi del processo Claudia vede Matteo, percependo la morte del giovane senza speranza e instaurando con lui un rapporto di comprensione. Finché, nel 2012, la sentenza: ergastolo.
«Antonio era morto per lui (perché lavorava per aiutare i giovani che, come Matteo, cercavano lo sballo, ndr) e ora la società lo condannava a morire». Suo marito, dunque, era morto per niente. «Claudia stai tranquilla che questa pena me la merito», le aveva risposto Matteo di rimando. Poi la pena venne convertita in un percorso all'interno di una comunità.
«Ho cresciuto i miei figli da sola, credevo di avere una famiglia perfetta», racconta invece Irene, la mamma di Matteo, convinta che i divertimenti del giovane appartenessero alle solite ragazzate. «Non capivo che in quella musica si isolava, che i suoi silenzi erano la voce di un dolore che aveva dentro... O forse non volevo vedere, perché ne avevo paura io per prima». Lo capì dopo quel terribile 25 aprile: «quel giorno mio figlio era morto».
Da allora Irene cominciò a guardare dentro sé stessa, e decise che avrebbe accompagnato Matteo nel suo cammino di crescita e consapevolezza, raccontandogli dei suoi incontri con Claudia e della sua visita al marito. «Quello che ho imparato da questa esperienza - ha concluso Irene - è che c'è una seconda possibilità per tutti, anche per noi genitori. L'importante è mettersi in gioco con umiltà».
Corinna Opara
Conferenza Volontariato Giustizia - Fvg