"La Montagna incantata" da Thomas Mann apre la stagione al teatro Stabile Sloveno
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- Categoria: Teatro
- Pubblicato Domenica, 09 Novembre 2014 15:36
- Scritto da Marzio Serbo
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Trieste - Hans Castorp è mediocre e sano, candido ed egoista, inquieto e curioso, ma non fino al punto da poter affrontare la verità della vita. Incapace, piuttosto, di prendere parte al dibattito e decidere da che parte stare, il protagonista de “La montagna incantata” di Thomas Mann sale sul palcoscenico del teatro Stabile Sloveno di Trieste dal 7 al 9 novembre per l’apertura di stagione.
Una fortunatissima coproduzione con il Drama di Lubiana, il teatro nazionale sloveno, che utilizza per lo spettacolo la rilettura della drammaturga Katarina Pejovič, fedele allo spirito dell’articolato noto racconto tedesco, dal baricentro inclinato in direzione di una narrazione di quella crisi sociale che sconvolse il mondo sul nascere del Novecento, più che verso lo stile dei romanzi di formazione a cui solo in parte appartiene.
Un viaggio metafisico nel cuore dell’incubo della malattia, ripensata come unica possibile contorta via di accesso alla vita. Malattia e cura in mano al Vecchio, un grande Vladimir Jurc nella parte del primario Behrens, che, sciamano della Montagna, esorcizza la morte e protegge da tutte le aggressioni del mondo.
Un pianeta riflesso in un’agguerrita contesa fra intellettualistiche razionalizzazioni e impulsi emotivi, dibattuta dai due personaggi simbolo: Settembrini, filosofo illuminato e discepolo di Carducci, interpretato qui brillantemente da Igor Samobor e il gesuita ebreo Leo Napha, Marko Mandič, contraddittorio oscuro specchio dei dubbi irrazionali dell’umanità, che sottratto alla morte in duello dallo stesso amico-nemico Settembrini che lui stesso aveva sfidato, si uccide, prefigurando la caduta stessa di quel mondo del quale è espressione, sotto i colpi feroci della Grande guerra che incombe.
Tre settimane di permanenza sono previste al sanatorio montano di Davos, nel Cantone dei Grigioni, per il giovane Castorp, uno straordinario Aljaž Jovanovič, popolare stella del panorama teatrale sloveno, qui capace di incarnare il volto in parte ingenuo e in parte egoista del suo meschino personaggio.
Una breve visita soggiorno all’ammalato cugino Joachim, il bravo Romeo Grebenšek, che dà forma ad un personaggio fuori contesto in perenne tensione con la Montagna da cui fuggirà per rientrare nel mondo e a cui ineludibilmente farà ritorno per concludere la sua breve giovane vita di soldato con la morte. Tre settimane che diventano sette anni, non per il «mal sottile» di cui Castorp non soffre, ma nella dilatazione del tempo metafisico che attraversa il suo senso di vuoto e le parole degli strani ospiti-pazienti e di coloro che se ne prendono cura, la signora Stöhr (Silva Čušin), Paravant (Gašper Jarni), Hermine Kleefeld, (Saša Mihelčič) e il dottor Krokowski (Luka Cimprič), Adriatica von Mylendonk (Sabina Kogovšek), la cameriera (Nina Valič), efficace e divertente cast cui si aggiungono due giovani attori appena diplomati, Lovro Finžgar e la triestina Patrizia Jurinčič.
Il tema dell’amore si avviluppa attorno alla “gatta” madame Clawdia Chauchat, la brava Nataša Barbara Gračner, intrigante nella magica erotica freddezza di cui è la testimone chiave, che costruisce con il suo compagno, l’imprenditore Mynheer Pieter Peeperkorn, Ivo Ban, il corpo delle passioni di Castorp. E matericamente, proprio su di un corpo, sulla schiena nuda del giovane, scrive le parole della conoscenza-consapevolezza che soltanto nel dramma vorticoso del desiderio possono prendere forma.
La regia è stata affidata alla slovena Mateja Koležnik, che è stata capace di asciugare i gesti e le azioni mantenendo in equilibrio ironia e riflessione, accattivante surrealismo, sostenuto anche dai costumi di Alan Hranitelj, e la drammatica realtà proiettata sul concavo metallo di un grande cannone, disegnato da Henrik Ahr, che aprendo le sue viscere diventa ricovero della malattia del mondo.
Dopo un’apertura scintillante e coinvolgente, la seconda parte è risultata forse un po’ troppo scarna, affidata al solo virtuosismo interpretativo di Samobor e Mandič, ma il riscatto del terzo atto, risolve lo spettacolo con un grande impatto emotivo chiudendosi sulle parole di Castorp:
«Sono qui, e in me ancora resistono brandelli di sogni.
So di aver diritto, inoppugnabile, di esser qui e sognare.
Ma devo svegliarmi, è mortalmente rischioso, per me.
La morte è una forza potente, vicino a lei si va in punta di piedi,
ci si toglie il cappello.
E la ragione nulla può di fronte a lei.
Più forte di lei è solo... non lo devo dimenticare.
Penserò a questo.
Il cuore mi batte forte, ma non sa perché.
Svegliati.
Apri gli occhi.»
Poi, giù nella bocca di un grande cannone, dove la consapevolezza della fine si spezza nella feroce inutile tragedia della grande Guerra.