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Last updateLun, 27 Feb 2017 8pm

Una Cenerentola alla greca. Rossini e la crisi all'opera

Cenerentola alla greca. Rossini e la crisi all'opera

Trieste – Tra fiaba e melodramma, il sesto appuntamento della stagione lirica triestina vede la ripresa di Cenerentola di Gioachino Rossini dopo dieci anni di assenza dalle scene del Teatro Lirico Giuseppe Verdi.

L’aspetto più appariscente di questo allestimento, prodotto dalla Greek National Opera di Atene, è senza dubbio la regia di Rodula Gaitanou. L’idea di fondo è quella di immaginare - in un'atmosfera alla West Side Story - un contesto economico in crisi, un ambiente sociale degradato e in cerca di riscatto, una famiglia scomposta e in preda a egoismi e invidie e, infine, il trionfo della giustizia e della bontà. Perciò Gaitanou decide di ambientare Cenerentola durante la penosa crisi del 1929 e trasportala in un teatro di varietà. Forse perché, come dice anche Alidoro, “Vasto teatro è il mondo”.

Queste le intenzioni, peraltro lodevoli. Specie se ricondotte a quanto la Grecia ha sopportato negli ultimi anni. Quello che è difficile mettere a fuoco è il risultato di una simile scelta. Quanto emerge sul palco è un costante ed esorbitante incalzare di scene, scenette, danze e controscene comiche nelle intenzioni – più o meno spiritose, più o meno salaci – che rimangono estranee al melodramma, non risparmiano nessuno tra gli attori e distraggono l’attenzione per due motivi almeno: prima per l’insensatezza e quindi per il tentativo di dare coerenza a quanto si vede.

I pochi momenti in cui riemerge un Rossini puro e autentico sono quelli in cui l’azione si ferma e la regia tace, come il duetto tra i due bassi buffi. Nel complesso la bilancia del gusto registico piega verso una comicità inopportuna e importuna, laddove, invece, il capolavoro del compositore consiste proprio nell’aver creato un miracoloso equilibrio dinamico tra elemento patetico-sentimentale e buffo-caricaturale.

Il pericolo che corrono in genere le opere comiche di Rossini è quello di incappare in qualunque ridicola bizzarria si possa sognare perché, in fin dei conti, Rossini era un burlone. Eppure di opera “semiseria” si tratta, e concepita in un momento storico anch’esso “semiserio”, in cui l’Europa e l’Italia si trovano in un momento di straordinario rinnovamento politico e civile e stanno per affrontare la Restaurazione. E tuttavia, durante la scena del temporale, si materializza un balletto con le ramazze...

Per il resto, molto gradevoli e ricchi di estro coloristico e narrativo sono le scene e le luci di Simon Corder e i costumi di Alexia Theodoraki.  Tutti al loro debutto a Trieste, compreso il maestro George Petrou che, oltre ad accompagnare al fortepiano i cantanti durante i recitativi secchi, guida l’orchestra con il giusto ritmo e senso della misura.

Strana la decisione di tagliare l’aria di Don Magnifico del secondo atto, se si considera che l’interprete, il basso Vincenzo Nizzardo, ha dimostrato buone qualità attorali e vocali, robusto e flessibile più nel registro medio alto che in quello basso.

Il registro basso, in effetti, è stato la bestia nera di quasi tutta la compagnia. Josè Maria Lo Monaco (Angelina) ha iniziato timidamente ma, con registro di mezzosoprano acuto, ha difettato nelle note basse e nella scolpitura degli abbellimenti – soprattutto – nel rondò finale, momento topico dell’opera in cui si aspetta, invano, un torrente di virtuosismi. Lina Johnson (Clorinda) e Irini Karaianni (Tisbe) sono molto belle e simpatiche. Nel complesso il settore femminile non rende giustizia alla vocalità complessa, rigogliosa e acrobatica delle rispettive parti.

Il tenore Leonardo Ferrando (don Ramiro) possiede agilità e acuti, ma questi sono opachi e senza smalto. In basso, si è detto. E poi è colui che, più di tutti, si trova a disagio nella giostra di leziosaggini e spiritosaggini imposta dalla regia.

Altra musica per Alidoro interpretato dal basso Filippo Polinelli, dalla bella voce potente e rotonda, intelligente ed equilibrato nella recitazione “filosofica”. Infine, ma non per importanza, il baritono brillante Fabio Previati è un Dandini vocalmente sempre all’altezza, molto spiritoso, duttile e istrione quanto basta a reggere lo scambio di persona e le moine con le sorellastre con umorismo macchiettistico.

Da non dimenticare il coro maschile istruito dal maestro Fulvio Fogliazza, tra le esibizioni migliori della serata.

[Roberto Calogiuri]

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