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Last updateLun, 27 Feb 2017 8pm

Sergio M. Germani, direttore del festival “I Mille Occhi”, parla con noi

Sergio Grmek Germani, direttore del festival “I Mille Occhi”, parla con noi

La nostra inviata Mariangela Miceli alla conclusione del  Festival internazionale del cinema e delle arti “I Mille Occhi” ha dialogato con il direttore Sergio M. Germani per offrirci una prospettiva diversa ed oltre il festival.

Partiamo dall'idea di strutturare “I Mille Occhi” non in sezioni ma in “percorsi”. C'è il senso del cammino.  Il “percorso” continua anche fra le diverse edizioni: l'anno scorso Zurlini, quest'anno il cinema da Zurlini a Zurlini.

Sono contento che questi intenti siano percepiti.

E questi intenti di continuità nel percorso rientrano in un'idea, in qualche modo, di educazione dello spettatore?

Il termine “educazione” a cominciare da quel regista che amiamo più di tutti, Roberto Rossellini, è considerato un termine non adatto. Lui sottolineava, quando realizzava questi film che volevano in qualche modo essere anche didattici, che il concetto di educazione non è esattamente quello a cui riferirsi. È un concetto caso mai di crescita dell'informazione, a partire da chi se ne occupa, per cui, per fare questo paragone un po' presuntuoso, cerchiamo di comportarci un po’ come Rossellini, che nel momento in cui realizzava film ad esempio su Cartesio, Pascal e così via non si limitava a usare dei testi su questi personaggi, ma studiava e ricercava i testi che questi stessi personaggi hanno lasciato, con un risultato che era, anche per lui stesso, di scoperta. E così io credo che si debba fare sempre, ogni volta che ci si occupa della cultura in generale e del cinema in particolare.

Il cinema forse più di tutti gli altri campi culturali ha un rapporto “in diretta” col reale, per cui occuparsi di una cosa che contiene anche elementi conoscitivi significa innanzi tutto partire dal carattere vivo che ha. I film, che siano del passato o del presente, li mettiamo davanti allo spettatore sullo stesso piano.

Questo è evidentemente uno dei tratti più interessanti del festival, attualizzare i film del passato e comunque ricontestualizzarli.

Nel momento in cui mettiamo di fronte a un nuovo pubblico un film del passato o l'opera di un regista, è prima di tutto per noi una scoperta, pur avendo certamente delle basi e una conoscenza preesistente. Però quella dev'essere secondo me semplicemente un punto di partenza. Anche chi è molto preparato e conosce bene un regista, nel momento in cui si riavvicina a un film, deve prima di tutto cercare di imparare. Quindi se vogliamo parlare di formazione perfetto, è prima di tutto una formazione nostra e vorremmo che in questo vi fosse il coinvolgimento di un pubblico sempre più ampio, che l'anno scorso con Zurlini è cresciuto molto, perché evidentemente scegliere quel regista - di cui il pubblico nato negli ultimi trent'anni a malapena conosceva l’esistenza - e proporre film bellissimi come quelli scelti l'anno scorso, che non sono per nulla datati o superati e anzi sono cresciuti di forza, evidentemente ha funzionato. Io alla fine della scorsa edizione mi sono chiesto come far crescere ancora questo pubblico, e accantonare solo per un attimo il riferimento a Zurlini sarebbe stato sbagliato. Era giusto invece partire da quel regista che appunto ha “funzionato” per ritrovare i collegamenti del suo cinema col resto del cinema italiano.

Quindi questa potrebbe essere una tappa del percorso in vista delle edizioni future?

Sì. Dunque quest'anno c'è il rapporto Zurlini-Pasolini, Zurlini-Rossellini e anche altre cose più documentaristiche, almeno in apparenza. Però come sappiamo il documentario non va considerato in senso rigido, e dunque noi abbiamo presentato dei documenti come il Concilio Ecumenico Vaticano II, e non a caso lo programmiamo subito dopo “Il Vangelo secondo Matteo”. Ci sembrava interessante far vedere dopo decenni questo documentario quasi ufficiale, realizzato quando era ancora in vita Giovanni XXIII; è un documentario realizzato da un regista che non era fra i maggiori del periodo, Antonio Petrucci, che però percepisce lo spirito del momento. Ci siamo poi lanciati alla ricerca di altri documenti come questo.

Credo sia la prima volta in assoluto che in un festival cinematografico venga proiettata una messa. L’abbiamo trasmessa non a caso di domenica mattina, non per ragioni di fede ma perché mi affascina quest'idea della ritualità, mi affascina che il momento rituale che la messa scandisce veda proporre dentro un festival una messa di quasi quarant'anni fa, vedendo il documento come possiamo vederlo oggi: non è una messa qualsiasi ma una messa in cui avviene qualcosa di particolare, Paolo VI che, essendo stato molto amico di Aldo Moro e avendo sofferto moltissimo della sua scomparsa, ne rievoca la memoria e si rivolge a Dio sottolineando l'ingiustizia di questa morte.

Perciò anche nella ritualità entra in qualche modo la situazione storico-sociale e una fotografia del tempo, mostrando una ritualità non cristallizzata.

Possono avvenire delle cose che fanno parte dell'imprevedibilità del rapporto fra l'uomo e questi pensieri. È una cosa che appartiene fortemente al cinema. Qualcuno potrebbe dire che quella in realtà è televisione, è la differita di una diretta televisiva, ma sappiamo benissimo che il cinema non è una cosa che coincide necessariamente con la realizzazione di film finzione o di documentari, ma piuttosto una cosa che riguarda tutto l'universo delle immagini, le immagini che oggi si creano anche con altri strumenti; ma anche ciò che ha assunto forma di televisione può essere visto, quando si è conservato, come un momento di fiction. Naturalmente non lo dico per sminuire, anzi.

Intende la rappresentabilità anche a distanza di tempo di una testimonianza di un documento? Infatti.

E che mi dice di questa scelta? C'è stato molto, quest'anno, che ha riguardato l'ambito della fede. È stata una scelta voluta o “casuale”, man mano che andava avanti la costruzione del festival e il lavoro di ricerca?

A piccoli passi. Noi in genere non partiamo dall'idea che una certa edizione sarà su un certo tema. Noi partiamo dall'idea di quali sono i registi e i film che ci stimolano lo spettatore ad un approfondimento di conoscenza, dall’idea di cercare di tirare le fila tra questi film o dal fatto che queste fila sono già state accennate da chi li ha realizzati - come ad esempio è Zurlini stesso a dichiarare che Pasolini era il regista con cui sentiva che il suo cinema aveva un maggiore rapporto. In altri casi non è un rapporto così esplicito. Quando si parla ad esempio de “Il Vangelo secondo Matteo” qualcuno dice che è stato presentato al Concilio Ecumenico nonostante sia il film di un non credente; ciò invoglia a vedere il qualche modo com'era il mondo ufficiale là dentro il Concilio, i documenti ufficiali del Concilio, le uniche immagini a colori che ne esistono, perché noi conosciamo quelle televisive. Questo è un film che da decenni non si vede e proiettiamo l'unica copia esistente del film, e questa è una cosa di cui siamo molto fieri - questo come tanti altri film in programma - perché questo significa che c'è un'autorevolezza del festival rispetto agli archivi. Un film in copia unica non viene affidato a chiunque ed evidentemente chi ha fiducia in noi sa che diamo la garanzia di “trattarlo” adeguatamente.

Riteniamo comunque che la copia d’epoca, originale, non sia sostituibile con un trasferimento video. Disporre di un dvd va benissimo per poter rivedere un film a casa, però il momento spettacolare deve avvenire col film nei formati originali. Nella maggior parte dei casi noi ci riusciamo.

Poi come avrà notato in programma c’è la collezione Cappai, che è una collezione ritrovata di recente dalla Cineteca di Gemona che contiene film molto rari e di cui abbiamo fatto una prima scelta. E anche lì nel momento in cui abbiamo fatto una scelta, accanto ad altre che riguardavano il programma del festival, ci sembrava opportuno selezionare alcuni film che si avvicinavano a quel contesto che già stavamo costruendo.

 

Insomma è stata una specie di attrazione fra i vari percorsi del festival. Un programma che viene costruito in itinere.

Sì, succede così, e a un certo si ha la sensazione che ciò che si è riunito stia bene insieme, per così dire. Poi non finisce lì, non si compie tutto nella realizzazione di un programma, nel senso che è nel momento in cui il festival si svolge che si ha la piena consapevolezza di ciò che si è costruito.

Anche la risposta del pubblico è determinante, e l’intervento dei registi presenti.

Esatto. Il programma di un festival è un po’ come il soggetto e la sceneggiatura per i film.

A proposito delle personalità presenti: abbiamo visto i giovani registi francesi, Irazoqui, Maresco. È interessante vedere come i Mille Occhi non sia solo un ponte fra cinema “vecchio” e “nuovo”, ma anche come sia una manifestazione di respiro internazionale. Senza dimenticare l’attenzione particolare al territorio di Trieste, tant’è che prosegue l’omaggio alla città e alle attrici di Trieste.

Sì, così come nel rapporto fra cinema italiano e altre cinematografie, ci interessa mettere in contatto quello che è ancora ampiamente da perlustrare. Anche qui non siamo partiti dall’idea di fare una rassegna su questo ma a piccoli passi abbiamo sentito l’esigenza di costruire tutte queste cose, dall’omaggio alle attrici triestine ai tutti i film girati a Trieste.

E siamo felici che dal puro accostamento delle cose nascano collegamenti impensabili. Da una parte volevamo dare il premio Anno Uno al siciliano Franco Maresco, poi abbiamo scoperto che uno di questi western girati a Trieste ha la coproduzione della regione Sicilia. Io credo che chi fa festival più che cercare delle risposte e delle idee debba cercare di percepire quello che gli arriva. Questa è la cosa che mi interessa nel costruire il programma.

Perciò rintracciando dei collegamenti già presenti fra alcune opere, collegamenti a cui nessuno avrebbe pensato finché non le vede accostate in un festival. Ma vorrei farle una domanda su un argomento spinoso: voi vi trovate a dover gestire l’organizzazione di un festival con dei tagli di fondi alla cultura. Guardando il programma non si percepisce tuttavia una differenza qualitativa.

Si percepisce nel fatto che sono due giorni in meno, poi naturalmente noi cerchiamo di fare il possibile perché la qualità resti alta. Abbiamo avuto la proposta di fare addirittura tre giornate, ma io sono dell’idea che un festival di durata così breve non sia più un festival. Diventa un evento, o chiamiamolo come vogliamo. Ma un festival deve comunque offrire qualcosa di più vasto. Ridurre drasticamente un programma, proiettare pochi film e ospitare poche personalità equivarrebbe a dire che un festival non è necessario. Il festival deve avere un carattere di “ricchezza”, che poi si confronta, certo, con le possibilità economiche, ma comunque deve avere carattere di abbondanza rispetto anche alla possibilità che un singolo spettatore possa vedere tutto. Questa è una cosa che spesso viene obiettata, ma io non credo si debba ragionare così: bisogna offrire un po’ di più rispetto a quanto non sia umanamente fruibile perché questo lascia una traccia di ulteriore possibilità di approfondimento e di scoperta. Ciò che lei dice, che non si nota una differenza di programma, è perché è un lavoro che va avanti tutto l’anno, a differenza di quanto non si possa pensare.

E a proposito dello spostamento della sede dopo la chiusura dell’Ariston: dopo l’anno scorso avreste continuato lì?

Certo che avremmo continuato lì. Non perché al Miela non abbia funzionato, ma perché all’Ariston aveva già funzionato bene lo scorso anno. C’era la sala adatta, c’era una cornice adatta. Questo per chi proietta tante cose su pellicola è importante; per altro noi proiettiamo al Miela con le macchine dell’Ariston. I proiettori sono quelli dell’Ariston, si è deciso di acquisirli perché di qualità superiore.

Un’ultima domanda: il premio Anno Uno a Maresco.

Volendo per la dodicesima edizione premiare un cineasta italiano dopo aver premiato cineasti stranieri legati in qualche modo all’Italia, e pensando a quale fosse il cineasta che più lo meritava, si è arrivati a lui perché è uno molto ai margini, noto certamente per le cose fatte prima ma che come artista singolo deve essere probabilmente ancora scoperto. È una di quelle cose che spesso succedono nei nostri programmi: quando scatta un’idea non si ha nemmeno il bisogno di motivarla, se si ha l’impressione che sia quella giusta.

 

 

Chi siamo

Direttore: Maurizio Pertegato
Capo redattore: Tiziana Melloni
Redazione di Trieste: Serenella Dorigo
Redazione di Udine: Fabiana Dallavalle

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