"Mio padre votava Berlinguer" di Pino Roveredo, baci e schiaffi di una vita che va vissuta
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- Categoria: Libri
- Pubblicato Giovedì, 02 Luglio 2015 18:57
- Scritto da Timothy Dissegna
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Trieste - Quante parole evitiamo di dire, per pudore o semplicemente perché non riusciamo a farlo? Quante volte vorremmo parlare con i nostri cari, confessargli i nostri segreti, rivelargli noi stessi ma, quando sentiamo il bisogno di farlo, loro non ci sono più? E tutto rimane dentro la nostra anima, si mischia ai rimpianti e nessuno sa cosa daremmo, in cambio di pochi minuti di nuovo con loro.
Sono queste le premese strazianti con cui lo scrittore triestino Pino Roveredo, vincitore del Premio Campiello nel 2005 con Mandami a dire, ha tessuto il suo libro Mio padre votava Berlinguer, edito nel 2012 per Bompiani: una vera e propria lettera d'amore per la figura paterna che non c'è più da più di trent'anni, portato via alla vita da un tumore atroce e disumano. Ancora più sadico perché già assassino della madre pochi giorni prima, così presto che il figlio non era nemmeno riuscito a piangerla.
Erano gli anni '80, l'ultimo decennio di un'epoca dove certi valori facevano da perno inviolabile per tutti, o quasi: in primis la politica, nella quale si muovevano ancora persone “perbene”, come quell'Enrico Berlinguer citato nel titolo e simbolo per eccellenza, tra le pagine, di una categoria di gente sempre più esigua oggigiorno. Le uniche in cui credeva il padre di Roveredo, un “club” di cui sia genitore che figlio avrebbero voluto farne parte, ma che le pieghe dell'esistenza hanno reso spesso lontano.
Tra gli anni delle contestazioni “a modo mio”, come ricorda lo scrittore, e quelli più attuali della politica berlusconiana, sembra esserci passato un secolo e invece sono poco più di quarant'anni, dentro i quali il mondo si è stravolto. E l'autore tenta di raccontarlo a chi non c'è più, in un'autobiografia che ripercorre un po' tutte quelle tappe della sua vita che si sono incrociate con la Storia: il passato di alcolista, la gallera da ragazzo, la tregedia del manicomio e il suo ritorno come operatore quando questo non c'era più, la vita dura da operaio e la fama in tv al Maurizio Costanzo Show, fino alla rinascita come scrittore.
Il mondo che fa da sfondo è quello che abbiamo vissuto tutti, forse in parte anche dimenticato: la forza solidale all'interno delle fabbriche, che negli ultimi anni si è sgretolata in gelosia del proprio posto di lavoro e culto dei calciatori-divi; ma soprattuto la classe politica fatta da “brave persone”, così distanti dai tanti politicanti inquisiti e corrotti che affollano i titoli dei giornali. Tutto questo brucia nella carne e nel cuore di Roveredo, ma nutre ancora una speranza.
Quella che affida nel suo lavoro di volontario con i ragazzi sbandati, caduti nei tunnel autodistruttivi dell'alcol e della droga, da cui riemergere è difficile e per questo lo scrittore, che ha vissuto questo sulla propria pelle, fa di tutto per salvarli. E vorrebbe salvare anche il padre dal suo non ritorno, per chiedergli spiegazioni su quella sua vita dura, verso sé stesso ma anche con la propria famiglia, da cui emerge un friulano spigoloso e acido con chi lo ama. E al tempo stesso confessargli quanto bene gli ha sempre voluto, nonostante tutto.
Le parole della penna triestina graffiano l'anima con una carezza, rendono ogni sorriso la maschera di un pianto e viceversa, in un mantenere viva la memoria di noi e di chi non c'è più che non può finire mai. Nemmeno dopo il decimo foglio, nemmeno dopo ore che si è lì a scriverci sopra tutto noi stessi, senza rimpianti perché, per quanto brutta o triste possa essere, la vita è comunque solo tua.