“La fabbrica del talk show” alla Wärstsilä di Trieste con i vincitori di Premio Internazionale Luchetta 2013
- Dettagli
- Categoria: Eventi
- Pubblicato Mercoledì, 03 Luglio 2013 09:50
- Scritto da Monica Visintin
- Visite: 1151
Trieste, 2 luglio 2013 -Si è svolta nella suggestiva location della Wärstsilä Italia l’edizione 2013 di Antepremio Luchetta. I vincitori della 10° edizione del premio giornalistico internazionale dedicato al giornalista triestino sono stati ospiti di un talk show allestito nel cuore della fabbrica e condotto da Giovanni Marzini con la partecipazione di grandi firme del giornalismo italiano: Pino Scaccia, Daniele Mastrogiacomo, Toni Capuozzo, i due inviati in Siria recentemente rapiti e liberati Amedeo Ricucci e Elio Colavolpe, il direttore di Rai World Claudio Cappon, un volto storico del TG1 come Angela Buttiglione, Vittorio di Trapani, segretario dell’USIGRAI (sindacato dei giornalisti della RAI) e il direttore de “Il Piccolo” di Trieste Paolo Possamai.
Il coraggio e la professionalità di corrispondenti e inviati, nuove tecnologie e finalità nei servizi pubblici d’informazione, i costi della cronaca estera e la passione tutta italiana per la cronaca politica interna: questi sono stati i temi del dibattito che è stato trasmesso in diretta web da Radio City Trieste e nel quale sono intervenuti anche il padrone di casa Sergio Razeto, presidente e CEO di Wärstsilä Italia e Sergio Bolzonello, vicepresidente della Giunta regionale del Friuli Venezia Giulia ed Assessore alle Attività produttive.
In più occasioni l’accento è stato posto sulla differenza nell’impiego delle risorse dei servizi pubblici d’informazione in Italia e nel resto d’Europa: ancora molto legata al dibattito politico interno e sempre più ancorata alla ricerca in rete e all’elaborazione in studio, l’informazione italiana sembra investire di meno nei reportages e nelle inchieste a carattere internazionale.
E’ quanto è risultato indirettamente anche dalle esperienze dei giornalisti stranieri fra i vincitori del Premio Luchetta 2013: Ian Pannell e Darren Conway della BBC, due anni sul fronte siriano come “tempo necessario per un impegno morale” confluiti nel servizio giornalistico per la BBC sulle vittime della guerra civile; Richard Lloyd Parry, il corrispondente dall’Asia per The Times, cinque anni sotto falso nome in Birmania dove ha firmato i reportages sulla repressione di regime ma anche sulla pulizia etnica da parte dei buddisti nella parte occidentale del paese; Jean–Sèbastien Desbordes, autore per l’emittente France 2 di un commovente servizio sul viaggio in treno attorno al mondo del piccolo Sasha, vittima della Sindrome di Beuren. “È una questione anche di costi e di organizzazione dell'azienda” ha sottolineato nel corso del talk show Angela Buttiglione “se il servizio della BBC l'avessimo realizzato noi sarebbe costato dieci volte di più. Senza contare che altrove ha molto più valore il lavoro di squadra, in Italia non è ancora così”.
Tutti concordi però sulle finalità del lavoro di inviato: che non è più quella di limitarsi a documentare la guerra o i rischi corsi dai reporter. “Anche quello che è successo a noi è una cosa normale, che è capitata, capita e capiterà a tutti quelli che vogliono fare il nostro lavoro seriamente. Non ci piace il ruolo di protagonisti, noi siamo stati semplicemente i testimoni quello che succede nelle aree di crisi” ha ricordato Amedeo Ricucci reduce con Elio Colavolpe dalla drammatica esperienza della prigionia in Siria”. Rifiutare il protagonismo dell’inviato di guerra significa lavorare in squadra per dare voce a coloro che alla guerra non possono sottrarsi: “Questo è stato un lavoro di gruppo” ha detto Ian Pannell, giornalista BBC da oltre vent’anni “Volevamo raccontare le storie delle persone comuni, non quelle dei profughi che sono riusciti a trovare asilo in Turchia, Libano o Giordania.
La maggior parte dei reportages sulla Siria riguarda soprattutto gli aspetti politici del conflitto. Noi ci siamo recati a vedere cosa succedeva nelle grotte e nei tunnel sotterranei a nord della Siria, che si diceva fossero vuoti. In una caverna abbiamo trovato sette bambini che aspettavano per ore che la mamma tornasse mentre fuori imperversava la guerra. Questo significa avere un'idea di cosa significhi vivere la guerra”. “Noi siamo qui per dare voce alle persone che soffrono” ha aggiunto il cameraman Darren Conway “Abbiamo voluto andare oltre la prima linea, dove ci sono le persone che soffrono. Alla fine del servizio noi torniamo a casa, loro no. Il minimo che possiamo fare è dare voce a quelli che restano la vita ha lasciato indietro”.