Turner: perché sì
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- Categoria: Cinema
- Pubblicato Sabato, 14 Febbraio 2015 18:47
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Trieste - “Turner” è un film godibile, efficace e dall’impostazione narrativa del tutto comprensibile. Il film si apre sulla seconda parte della vita di J. M. William Turner, quando il pittore, già all’apice della fama, abbandona gli schemi accademici del vedutismo settecentesco per aprirsi alla sperimentazione pittorica basata sugli effetti luministici e materici. Il tutto è costruito per evidenziare aneddoti veri, spunti biografici confermati e, in sottofondo, suggerisce intuizioni interpretative, come quella sulla probabile visita che l’autore, ormai anziano, nel 1861 (nell’anno della sua morte), fa al cantiere dell’erigenda serra del Paxton, il Crystal Palace. Ben risolta anche la disputa con Ruskin, sulla presunta importanza della pittura di Lorrain nella cultura contemporanea o lo spunto per il soggetto della Temeraire, dove un fatto di cronaca si trasforma in un canto elegiaco che mette in rapporto il passato con l’incalzante rivoluzione industriale basata sulla macchina a vapore.
L’iter narrativo, sebbene possa apparire didascalico, è di grande forza espressiva perché procede per immedesimazione. In effetti l’idea che emerge è questa: il regista proceda ponendosi un’unica domanda: “S’io fossi stato il pittore Turner, come mi sarei comportato in quella certa circostanza?” Dalla risposta a questa domanda, esce la struttura compositiva (davvero convincente) della pellicola di Leigh.
J. M. William Turner è stato di certo un pittore di successo, ma anche un po’ misantropo e dalla personalità dissociata (muore quasi in incognito, sotto il falso nome di capitano Booth), incline a una vita vagabonda e poco regolare. Questa personalità contrastata viene interpretata in maniera egregia dal grugno espressivo di Timothy Spall oltre che dai lunghi silenzi che percorrono numerose inquadrature del film, compensati però dal predominio dell’immagine. In questo modo M. Leigh, il regista, ci restituisce un ritratto completo, di certo riuscito e verosimile del grande pittore inglese. All’opposto (ci permettiamo il confronto) il ritratto di Vincent Van Gogh, che Kurosawa fece in “Sogni” (1990), era non solo del tutto riuscito e verosimile, ma anche memorabile, visionario e innovativo.