Roberto Curci presenta “L’enigma di Boltzmann” e parla di Trieste, scienza, musica, giornalismo. Oggi come un secolo fa?
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- Pubblicato Mercoledì, 21 Novembre 2012 08:59
- Scritto da Roberto Calogiuri
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Trieste – “L’enigma di Boltzmann”, ultima produzione letteraria di Roberto Curci, sarà presentato alla libreria Lovat il 21 novembre alle 18.00. L’autore - giornalista culturale, scrittore e saggista - con lo sguardo rivolto alla dimensione storica e umana, esamina la società vagliandola attraverso uno schietto senso critico non privo di umorismo.
Abbiamo conversato con Curci, che ha risposto gentilmente a qualche domanda non solo “letteraria”.
Perché Ludwig Boltzmann? Dico la verità? Perché mi faceva comodo. Un personaggio così geniale, così importante per il progresso della fisica, della cosmologia, e di altre branche del sapere scientifico, che viene a Duino in vacanza con la famiglia e qui si uccide, era un boccone troppo appetitoso per non inserirlo in un contesto che possiamo definire “giallo” o “nero”, ma soprattutto in questo incrocio di figure eccellenti che a Trieste, proprio in quegli anni remoti, si trovarono a transitare. E anche nel quadro complessivo, politico e sociale, di una città che cresceva e cresceva, ma era in piena fibrillazione e... già ricchissima di contraddizioni.
Infatti nel romanzo Mahler dice che a Trieste “sta bene pur stando male”. È ancora valido? Penso di sì. Basti pensare alla maggioranza dei triestini di oggi: lamentosi e ignavi, ampiamente depressi, ma che nella loro città stanno come in un comodo guscio. Città vecchia, di vecchi brontoloni, che tuttavia non saprebbero (né avrebbero saputo) vivere altrove. Alla mattina al mare, alla sera in osmiza. Tendenzialmente pomigadori (amanti del dolce far niente, ndr) salvo poi – appunto – lamentarsi di tutto ciò che non va, ma incapaci di muovere un mignolo per migliorare “ciò che non va”. Da qui, tra l'altro, l'inguaribile ostilità caratteriale delle formiche friulane per le cicale triestine...
Ma una volta anche Trieste era piena di “formiche”: musicisti, pittori, letterati, scienziati… Trieste, lo sappiamo, era il grande porto dell'Impero asburgico. Aveva un'enorme forza centripeta, di commistione, che, nel giro di un secolo, si è tramutata in un perverso meccanismo centrifugo. Allora come oggi, era una città litigiosa, contraddittoria, sempre con “la bora in testa”. Ma era una città viva. Oggi, come scrive e dice qualcuno, è suppergiù Necropolis...
Una metafora molto cruda... L'ho già detto: è una città intrisa di contraddizioni, oggi più di ieri. Chi potrebbe fare qualcosa, aiutarla a crescere o almeno a trovare una propria via non perdente, si ritrae, preferisce coltivare i propri piccoli “particolari”, che – beninteso - possono essere anche importanti, meritevoli sotto il profilo culturale. Città di piccoli ma accaniti collezionisti, ad esempio. Città di esperti-espertissimi in molti campi. Ma ignoti gli uni agli altri, tutti chiusi nelle proprie nicchie. Se poi qualcuno decide di darsi da fare per un presunto bene comune, zac, arriva subito il bastone tra le ruote, l'eterno gioco dei veti incrociati, il mi no son bon de far, ma no lasserò che el fazi lu, anche se el podessi..”.
È anche una “Strana città” per Mahler e sua moglie Alma, “buffa” per Joyce, “bizzarra” per Leo Perutz. A Schiele invece piace. “Il mare, il sole, la libertà.” Ancora contraddizioni. È così. Ieri come oggi. Strana, buffa, bizzarra: sono aggettivi ancora validi. Aggiungo: una città che, da un certo punto in avanti, non ha mai cercato di crescere, o almeno di capire cosa avrebbe voluto fare da grande (ammesso che tornare grande, com'era stata, le fosse possibile: ma pare proprio di no). Nessuna vera vocazione, nessuna progettualità, nessuna concordia di intenti. Resta il fatto che il viaggiatore occasionale, come Schiele nel 1907, ne potesse e ne possa apprezzare, appunto, “il mare, il sole” e l'ipotetica “libertà”. Per lui, almeno nel mio libro, almeno su quest'ultimo punto avrà un'amara delusione.
Nel romanzo Mahler dice che il pubblico del Teatro Verdi è composto “di intenditori ma anche di conservatori”. Le due cose coincidono? Mi pare di sì. Ma parliamo di generazioni che sono al capolinea. I veri intenditori, fra i giovani, mi sembrano pochini. E di sicuro non c'è, come c'era un tempo (almeno per certi autori, allora in auge), alcuna curiosità o interesse per tutto ciò che è, non dico contemporaneo, ma appena “moderno”. Basti un'occhiata ai cartelloni degli ultimi decenni, e non parlo solo del Teatro Verdi. Le ultime opere novecentesche che ricordo con grande vivezza risalgono a non so quanti (ma tanti!) anni fa: “Il giro di vite” di Britten, “I diavoli di Loudun” di Penderecki.
Filippo Leis appare spesso nella sua produzione. Qui ha 17 anni, già stanco, pessimista integrale, né arte né parte, due occhi curiosi di tutto, affamato di eventi culturali, sognava una cosa sola: diventare giornalista. Ma giornalisti si nasce o si diventa? Leis è un antieroe. Uno sfigato, continuamente umiliato dalla vita. Quanto alla domanda, rispondo così: per il giornalismo si può avere una certa vocazione, una certa attitudine (vera o presunta), pur non sapendo affatto – succede ai più – che cosa sia davvero la professione. Tuttavia è indubbio che giornalisti si diventa. Mi tocca dire: ai miei tempi... Beh, in effetti, ai miei tempi i giovani “apprendisti” crescevano, in genere, sotto l'ala protettiva di qualche collega anziano, che faceva da nave-scuola. Lo faceva per passare il testimone a un possibile successore, senza temere che gli “facesse le scarpe”, prima o poi. Ma il fatto vero è che, allora, la nave-scuola aveva tempo da perdere... Oggi non ce l'ha più, e quindi ogni giovane di belle speranze si arrangia da sé, senza reti di sicurezza, senza nessuno che lo indirizzi e lo corregga, sia nel taglio degli articoli, sia nella forma, sia nella grammatica e la sintassi. Da cui il diluvio di errori, refusi, granchi colossali... Inimmaginabili solo cinquanta anni fa.
Consiglierebbe a un giovane di fare il giornalista? Assolutamente no. È un mestiere in via di estinzione, almeno nell'accezione invalsa... ai miei tempi. Oggi il cosiddetto giornalista non ha più né tempo né modo di confrontarsi con la realtà, con la vita vissuta. E' inchiodato al desk, fa tutto da sé: telefona (soprattutto), scribacchia, titola, impagina... Ci manca poco che poi spazzi da sé il cubicolo dell'atroce open-space in cui lavora. Ma ci si arriverà....
Che differenza passa tra il giornalismo di un secolo fa e quello di oggi? Alla fin fine, in realtà, abbastanza poca. Era e rimane una professione gregaria, inappagante, legata fortemente ai poteri, forti o deboli che siano, e comunque a una routine micidiale, con sovraccarichi di lavoro insostenibili. Oggi rimane il tempo di fare, non più quello di pensare. A sventolare la bandierina del giornalismo vero rimane una fettina di professionisti (parlo della carta stampata, soprattutto, non di altri media) che crede ancora nel giornalismo d'inchiesta e si spende e si espone in tal senso, anche a costo di gravi rischi. Ma il pericolo vero, anzi il vero ludibrio, è quello che viene dai quotidiani e dai settimanali “schierati”, che parteggiano a prescindere, non solo distorcendo ma inventando di sana pianta. Quello, ovviamente, non è giornalismo, è immondizia: che però viene facilmente digerita, Dio sa come, e magari poi megafonata... Messaggi odiosi che comunque passano.
Fvgnotizie ha già parlato di Roberto Curci: Joyce, Mahler e la termodinamica, un mathematical thriller di Roberto Curci
L’enigma di Boltzmann” - Mgs Press, pagg. 175, € 17,50