Alternanza scuola lavoro. Non solo un caso di coscienza

Trieste – A sentire le parole “alternanza scuola-lavoro” si è tentati di dire: finalmente! I giovani sapranno cosa vuol dire lavorare, stancarsi, guadagnarsi il pane col sudore della fronte etc. etc.

Nella fattispecie si tratta dell’obbligo di 400 ore per gli istituti tecnici e 200 ore per i licei, per un totale di circa 600.000 studenti da mandare a “scuola di lavoro” presso le imprese – pubbliche o private - che si rendano disponibili ad accoglierli nel mondo dei mestieri.

Alcuni salutano questa novità della legge 107 (ma era già contemplata in un decreto legislativo del 2005) come un benefico tocca e sana pedagogico, come l’integrazione didattica che ci voleva per aggiustare la scuola ai tempi moderni e come la salvezza dalla terribile crisi dell’occupazione in Italia.

A guardarla da vicino, non appare come la soluzione auspicata dal governo Renzi e dalla sua ministra Giannini per “incrementare le opportunità di lavoro e le capacità di orientamento degli studenti” come recita la legge al comma 33.

La situazione è difficile da disegnare, essendo che il tessuto produttivo e distributivo italiano è molto vario e disomogeneo. Infatti è intuibile che la Lombardia offrirà una scelta di percorsi di alternanza diversi dalla Sicilia o dal Friuli Venezia Giulia, con differenze anche all’interno della stessa regione.  È ovvio quindi che gli studenti triestini o goriziani avranno opportunità diverse da quelli udinesi o pordenonesi.

All’interno del percorso, quindi, la varietà di occasioni è dettata dall’appartenenza dello studente al territorio e, quindi, del tutto casuale. La prova è che ci sono esperienze di alternanza opposte per gradimento,adeguatezza e retribuzione, visibili anche a occhio nudo e dettate dal caso.

Per esempio, studenti soddisfatti di andare al Corriere della Sera di Milano, a Palazzo Grassi di Venezia o alla Caritas di Roma. Altri che passano dal liceo classico, per tre giorni, in una raffineria, oppure in un albergo milanese, in aziende tessili, a una Asl come surrogati di assistenti sociali… Esperienze che gli studenti tendono a “eludere”, e spesso con l’appoggio dei genitori.

Per constatare la disparità è sufficiente fare una semplice ricerca per provincie sul Registro Unico delle imprese che offrono tali possibilità. E già qui si parte con una chiara disparità geo-economica di occasioni che generano una competizione (spesso acuta) tra scuole della stessa provincia e una corsa a stipulare convenzioni con le aziende più appetibili che offrirebbero ai dirigenti scolastici l’opportunità di mettersi in regola con la legge.

Ma a che prezzo? E qui si aggiungono altre complicazioni.

Gli studenti, attraverso le loro associazioni, fanno conoscere la scomoda verità che “la legge 107 non va a implementare esperienze di alternanza scuola lavoro realmente formative e attinenti al loro percorso di studi”  e “che spesso si fa l’alternanza scuola lavoro in aziende che non hanno le competenze per insegnare e in percorsi formativi che non hanno attinenza con il percorso di studi intrapreso”.

Ciò che si vuole gli studenti acquisiscano, non sono  profonde conoscenze critiche ma semplici e superficiali “competenze”  che ne facciano dei lavoratori obbedienti e flessibili per “mobilità” e compenso, in linea con la preparazione nozionistica introdotta e indotta dal sistema dei test Invalsi e, purtroppo, dal moderno sistema concorrenziale e liberistico.

Difficile è mascherare tutto questo da progetto didattico pedagogico culturale e sovrastorico, pur con la retorica pomposa impiegata dalla ministra Giannini - che cita le botteghe rinascimentali paragonandole alle Coop - coadiuvata dai potenti mezzi mediatici del Miur (qui il video di presentazione de “I campioni dell’alternanza).  Difficile, quando dalla parte opposta una nota della CGIL sostiene che al Sud – e non solo - c’è il rischio che l’alternanza si trasformi in un serbatoio di lavoro gratuito.

Difficile. Anzi impossibile se si aggiunge che gli studenti moderni sono sensibili a tematiche ambientali, ecologiste, sociali e umanitarie per cui risulta arduo immaginare che possano aderire alle filosofie aziendali di multinazionali come McDonald o Zara, due tra le maggiori aziende che offrono i percorsi.

È per questo che gli studenti non vogliono prestare la loro opera presso “quelle aziende ed enti che peccano in quanto a tutela dell’ambiente, investimenti in formazione e rispetto per i lavoratori, in cui ci costringono a fare l’alternanza scuola lavoro.”

Per uno studente, collaborare- seppure per 200 o 400 ore - con un’azienda implicata nello sfruttamento del lavoro minorile o dei lavoratori in Bangladesh, nella deforestazione dell’Amazzonia o nello sfruttamento intensivo di allevamenti animali e nella loro macellazione, o nella somministrazione di cibi non salutari, potrebbe rappresentare un caso di coscienza e di consapevolezza politica.

Recentemente, in un liceo triestino, una parte di studenti si è rifiutata di partecipare a una “lezione e discussione” tenuta da una multinazionale della ristorazione dimostrando la propria contrarietà con un sit in.  Non hanno voluto credere alla circolare del dirigente che evidenziava la “rilevanza e prestigio dell’Azienda invitata”.

Le aziende multinazionali che propongono i percorsi di alternanza lo fanno certi della loro penetrazione capillare e lo fanno con la stessa retorica acuta della ministra Giannini ma vi aggiugono una competenza comunicativa affilata e precisa come un bisturi. È la legge del marketing.

Ma qualunque sia l’azienda che propone i percorsi di alternanza scuola-lavoro, la domanda critica che questi casi pongono è se l’obiettivo didattico e pedagogico di questa legge, se il fine di ridurre la disoccupazione giovanile possano consistere ed esaurirsi nell’acquisizione di soft skills, di competenze trasversali, di customer care ovvero – in parole povere – nel saper accogliere e assistere un cliente, o intrattenere dei bambini a una festa di compleanno, o aiutare a fare un ordine elettronico, delle fotocopie, un volantino.

In questi casi di alternanza scuola-lavoro sarà prevista l’obiezione di coscienza?

[Roberto Calogiuri @robcalogiuri]

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