“Dove sono i nostri ragazzi?” Educatori del FVG scrivono una lettera aperta. Intervista al promotore

“Dove sono i nostri ragazzi?” Educatori del FVG scrivono una lettera aperta. Intervista al promotore

Pordenone - “La sofferenza che la preadolescente di Pordenone non è più riuscita a tenere dentro di sé e che è sfociata nel tentativo di porre fine alla propria vita ha colpito tutti. Profondamente. Così come altre analoghe vicende accadute nella nostra regione in questi ultimi anni”.

Così esordisce la lettera aperta che un gruppo di operatori pedagogici della nostra regione ha inviato alle amministrazioni locali (regioni e comuni) nelle scorse settimane e che sta ottenendo alcuni riscontri - al momento di carattere personale - da parte di sindaci ed assessori.

A tre mesi di distanza dal fatto di cronaca - che, ricordiamo, aveva coinvolto una giovanissima di Pordenone lanciatasi dalla finestra al secondo piano dello stabile in cui abita riportando gravi fratture, fortunatamente ora in fase di guarigione - l’evento “ci pone molte domande, ci interpella come adulti e interroga le istituzioni locali, le realtà scolastiche, quelle sociali, quelle sanitarie, quelle economiche, quelle culturali - prosegue la lettera. - Siamo tutti sollecitati a chiederci dove stanno gli adolescenti nelle scelte di una scuola, nelle priorità di un servizio sociale o sanitario, nelle politiche locali e in quelle regionali”.

Abbiamo raggiunto per un’intervista il promotore dell’iniziativa, Franco Santamaria, di Cormòns (Go), pedagogista, docente presso la facoltà di Scienze dell’Educazione presso l’ateneo triestino.

Come nasce l’idea della lettera aperta?
La lettera in realtà è una riflessione ad alta voce a partire dalla vicenda della ragazza di Pordenone. Mi sono accorto che c'erano molti silenzi, anche da parte delle istituzioni. La stampa, da parte sua, spesso ha un approccio a questi fatti all'insegna dello spettacolarismo. Eppure i mezzi di comunicazione possono avere un ruolo importante per aiutare pensare cosa c'è dietro ad un fatto di questo tipo.


Ritiene che ci sia una scarsa attenzione verso gli adolescenti?
Ci si accorge dei ragazzi quando avvengono fatti eclatanti, allora si grida all’emergenza educativa. Ci si dovrebbe invece sentire responsabili degli adolescenti in tutti i momenti della vita quotidiana, sia come singoli che come istituzioni. È decisivo promuovere delle politiche per la fascia di vita 11-18 non perché gli adolescenti sono più importanti degli altri, ma perché questa è un'età cruciale per lo sviluppo della persona. È l'età in cui ci si apre alla vita, alla fascinosità della vita, alla sua dimensione sociale ed anche alla sua problematicità. Il ragazzo si chiede “chi sono io?” ma anche “chi sono io da un punto di vista sociale? Quale sarà il mio posto nella società?” Questi orientamenti poi resteranno tali anche in età adulta. I ragazzi vengono descritti spesso in modo negativo, mentre invece sono curiosi, hanno voglia di imparare, di fare esperienze. Noi adulti come comunità abbiamo il complesso compito di insegnare loro a vivere: questo non va dato per scontato né dimenticato.

Le nuove tecnologie, i “social network”, i gruppi whatsapp, diventano sempre più presenti nella quotidianità dei ragazzi. Che ruolo svolgono?
Nel tempo attuale esiste tra le generazioni una distanza molto forte, molto più che in altri periodi del passato. La generazione dei genitori e degli educatori non ha alcuna esperienza delle tecnologie dell’informazione, i nostri ragazzi sono invece dei nativi digitali. Questi mezzi, da soli, non sono in grado di orientare ragazzi nella vita; ci sono tantissimi contenuti disponibili, ma non ci sono mappe per orientarcisi. In rete ci sono anche molte occasioni di relazioni virtuali, ma queste non hanno sostituito le relazioni dirette, reali, fisiche.

Come sono cambiate le relazioni?
I ragazzi hanno bisogno di relazioni autentiche, “orizzontali” - cioè tra coetanei. Nelle nostre città sono spariti i gruppi spontanei, che fino a ieri erano delle esperienze normali e direi formidabili momenti di crescita. Il gruppo naturale è quel gruppo non guidato da adulti dove in gran parte ci si costruiva un'identità. Un gruppo di apprendimento in cui ci si allenava a stare insieme con gli altri fisicamente e psicologicamente. Una recente indagine dell'Istat ha evidenziato che solo un ragazzo su 10 dai 6 ai 14 anni fa esperienza di gruppo naturale.

Come mai non esiste più il fenomeno del gruppo naturale? Qual è la conseguenza della scomparsa di tali momenti aggregativi?
La nostra società ha espulso i ragazzi dai luoghi di aggregazione: la strada, il cortile, il prato. Qui i ragazzi facevano l'esperienza di giocare ed anche di cadere, di sporcarsi, farsi male, di fare anche baruffa. Gli allenatori sportivi di bambini oggi notano che a 6 anni non sanno correre, quasi nessuno sa fare una capriola, quasi nessuno sa arrampicarsi su una pertica.

La vita all'aria aperta è essenziale per lo sviluppo, il rapporto con la natura è terapeutico. L'esperienza diretta nei ricreatori, negli oratori e in altri spazi aperti mostra che i bambini, quando sono in questi luoghi, corrono, giocano, si sentono liberi di esprimersi fisicamente.

Il modo di crescere è cambiato in maniera radicale. I bambini e ragazzi hanno perduto ciò che è essenziale al loro bene: il gioco, il tempo libero autogestito, il rapporto diretto con il territorio. Per questo occorre sensibilizzare le istituzioni su questo tema.

A suo avviso le istituzioni non sono abbastanza impegnate?
Si sente dire che i giovani sono il nostro futuro. Questa è una frase che viene spesso usata in modo ideologico. È vero il contrario. Il futuro dei giovani siamo noi. Siamo noi adulti - la famiglia, i professori, gli allenatori, gli amministratori, i politici, ed anche il mondo economico - che costruiamo il presente ed il futuro dei nostri ragazzi. E questo non viene particolarmente percepito. La lettera è stata inviata, oltre che alla Regione, anche a tutti i comuni del Friuli Venezia Giulia. Le risposte sono state poche, tutte a titolo personale, da parte di alcuni sindaci ed alcuni assessori particolarmente sensibili al tema.

Per quale ragione, a suo avviso?
Nel nostro Paese la cultura dell'attenzione ai giovani è sempre stata molto debole. Bambini ed adolescenti sono un elemento residuale delle politiche. Quando succedono fatti di cronaca come quello di Pordenone la risposta è un approccio emergenziale che lascia il tempo che trova. Occorre invece riprendere in mano la responsabilità educativa. La famiglia, da sola, non ce la fa; neppure la scuola, da sola; neanche le istituzioni, da sole... Occorre una comunità.

La lettera insomma è un sasso nello stagno...
La lettera non contiene proposte, non dice cosa bisogna fare, non mette sotto accusa nessuno. Ha solo lo scopo di riportare al centro il mondo dei ragazzi. Ci sono molte esperienze positive in questo campo, anche nella nostra regione: bisognerebbe farle parlare. La speranza è che da pratiche buone, ma sparse, possano derivare azioni di sistema di livello regionale, con ricadute sulle comunità locali. In buona sostanza serve che ci sia un progetto politico ragionato a favore dei ragazzi. Abbiamo bisogno di una politica seria, competente, che investa su un progetto di medio-lungo periodo, con lo sguardo oltre la mera scadenza del mandato elettorale. La politica deve chiedersi dove vogliamo andare come Paese, come città, come comunità locale.

Nella sua esperienza educativa, che idea si è fatto degli adolescenti?
I giovanissimi si fanno delle domande importanti: sul futuro, sulla vita, sulla morte. Le faccio solo un esempio: gli adolescenti e i giovani in generale non vanno nei cimiteri. Questi invece sono luoghi dove si tramanda la memoria, dove si racconta la vita. Sono grato ai miei nonni e genitori, che nel visitare le tombe presso la chiesa del paese mi raccontavano le storie delle persone defunte. In questo modo ci si può rendere conto che facciamo parte di una linea, che abbiamo in deposito un’eredità tramandata da coloro che ci hanno preceduto. Bisogna restituire ai ragazzi, assieme alle cose belle, anche le cose difficili della vita: il lutto, fallimento, lo screzio, la malattia, la perdita dei beni, la povertà. È questo che li rende forti. Di questo c'è urgenza: non emergenza.

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